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16 novembre 2024

by Mariapina Dragonetti

Testo: Stazio, Tebaide

Proemio ( I, 1-45)

Fraternas acies alternaque regna profanis
decertata odiis sontisque evolvere Thebas
Pierius menti calor incidit. unde iubetis
ire, deae? gentisne canam primordia dirae,
Sidonios raptus et inexorabile pactum                         5
legis Agenoreae scrutantemque aequora Cadmum?
longa retro series, trepidum si Martis operti
agricolam infandis condentem proelia sulcis
expediam penitusque sequar, quo carmine muris
iusserit Amphion Tyriis accedere montes,                   10
unde graves irae cognata in moenia Baccho,
quod saevae Iunonis opus, cui sumpserit arcus
infelix Athamas, cur non expaverit ingens
Ionium socio casura Palaemone mater.
Atque adeo iam nunc gemitus et prospera Cadmi        15
praeteriisse sinam: limes mihi carminis esto
Oedipodae confusa domus, quando Itala nondum
signa nec Arctoos ausim spirare triumphos
bisque iugo Rhenum, bis adactum legibus Histrum
et coniurato deiectos vertice Dacos                              20
aut defensa prius vix pubescentibus annis
bella Iovis. teque, o Latiae decus addite famae
quem nova maturi subeuntem exorsa parentis
aeternum sibi Roma cupit. Licet artior omnis
limes agat stellas et te plaga lucida caeli,                     25
Pleiadum Boreaeque et hiulci fulminis expers,
sollicitet, licet ignipedum frenator equorum
ipse tuis alte radiantem crinibus arcum
imprimat aut magni cedat tibi Iuppiter aequa
parte poli, maneas hominum contentus habenis,         30
undarum terraeque potens, et sidera dones.
Tempus erit, cum Pierio tua fortior oestro
facta canam: nunc tendo chelyn; satis arma referre
Aonia et geminis sceptrum exitiale tyrannis
nec furiis post fata modum flammasque rebellis          35
seditione rogi tumulisque carentia regum
funera et egestas alternis mortibus urbes,
caerula quom rubuit Lernaeo sanguine Dirce
et Thetis arentis adsuetum stringere ripas
horruit ingenti venientem Ismenon acervo.                    40
Quem prius heroum, Clio, dabis? inmodicum irae
Tydea? Laurigeri subitos an vatis hiatus?
Urguet et hostilem propellens caedibus amnem
turbidus Hippomedon, plorandaque bella protervi
Arcados atque alio Capaneus horrore canendus.            45

Le lotte fraterne e i regni alterni contesi con odi scellerati, e Tebe colpevole, ardore pierio m’ispira a narrare. Da dove volete, dee, ch’io cominci? Dovrò cantare l’origine prima della stirpe maledetta, i ratti sidonii e l’inffessibile patto imposto da Agenore e le ricerche di Cadmo attraverso i mari? Troppo lungo e remoto racconto se dovessi descriverlo, quell’agricoltore, nell’atto di riporre nei solchi maledetti, atterrito, i semi di una lotta nascosta, e per intero narrassi per virtù di qual canto Anfione impose ai monti di Tiro di sovrapporsi a formare le mura, o da dove ebbe origine l’ira funesta contro la città parente di Bacco e qual fu l’opera di Giunone crudele; contro chi, sciagurato, prese l’arco Atamante e perché non temette l’immensità dello Ionio la madre di Palemone, nell’atto di precipitarvisi col figlio. Perciò lascerò ormai da parte le sventure e le gioie di Cadmo, e limiterò il mio canto alla casa sconvolta di Edipo. Giacché ancora non oserei cantare le italiche insegne e i nordici trionfi e il Reno due volte costretto al giogo, l’Istro due volte alle leggi, e i Daci cacciati dal monte delle loro congiure, e le guerre da te sostenute, ancora in verde età, in difesa di Giove, e te, nuovo onore della gloria del Lazio, che subentri alle ultime imprese dell’anziano genitore e che Roma brama suo in eterno. Anche se gli astri si rinserrano in spazio più breve e te invita la regione luminosa del cielo che ignora le Pleiadi, Borea e il fulmine che squarcia, anche se l’auriga dei destrieri ardenti ti pone sulla chioma un’aureola di splendida luce o Giove ti cede metà dell’immenso cielo, rimani pago del governo degli uomini, signore del mare e della terra, e rinuncia agli astri.
Sarà giorno in cui, più possente d’ispirazione pieria, canterò le tue imprese: per il momento mi basta narrare sulle corde della lira le lotte tebane e lo scettro funesto a due re e il furore che non ebbe tregua neppure dopo morte e le fiamme ribelli per la scissione del rogo e i corpi dei re senza tomba, e le città svuotate da morti reciproche, allorché l’azzurra Dirce s’arrossò del sangue argivo e Teti fremette al vedere l’Ismeno, solitamente contento di lambire le sue aride sponde, sopraggiungere trascinando un’immensa quantità di morti. Ma quale degli eroi, Clio, mi assegni per primo? Tideo implacabile nello sdegno?
O l’abisso improvviso che inghiotti il vate coronato d’alloro? Mi stimola pure l’impetuoso Ippomedonte, che contrasta con una massa di cadaveri la furia del fiume nemico, e la lotta lacrimevole dell’Arcade ardito, e Capaneo, degno d’un più fiero canto

 La maledizione di Edipo ( I, 46-87)

Impia iam merita scrutatus lumina dextra
merserat aeterna damnatum nocte pudorem
Oedipodes longaque animam sub morte tenebat.
Illum indulgentem tenebris imaeque recessu
sedis inaspectos caelo radiisque penates                         50
servantem tamen adsiduis circumvolat alis
saeva dies animi, scelerumque in pectore Dirae.
Tunc vacuos orbes, crudum ac miserabile vitae
supplicium, ostentat caelo manibusque cruentis
pulsat inane solum saevaque ita voce precatur:              55
‹Di, sontes animas angustaque Tartara poenis
qui regitis, tuque umbrifero Styx livida fundo,
quam video, multumque mihi consueta vocari
adnue, Tisiphone, perversaque vota secunda:
si bene quid merui, si me de matre cadentem                  60
fovisti gremio et traiectum vulnere plantas
firmasti, si stagna peti Cirrhaea bicorni
interfusa iugo, possem cum degere falso
contentus Polybo, trifidaeque in Phocidos arto
longaevum implicui regem secuique trementis                65
ora senis, dum quaero patrem, si Sphingos iniquae
callidus ambages te praemonstrante resolvi,
si dulcis furias et lamentabile matris
conubium gavisus ini noctemque nefandam
saepe tuli natosque tibi, scis ipsa, paravi,                         70
mox avidus poenae digitis caedentibus ultro
incubui miseraque oculos in matre reliqui:
exaudi, si digna precor quaeque ipsa furenti
subiceres. Orbum visu regnisque carentem
non regere aut dictis maerentem flectere adorti,               75
quos genui quocumque toro; quin ecce superbi
– pro dolor! – et nostro iamdudum funere reges
insultant tenebris gemitusque odere paternos.
Hisne etiam funestus ego? Et videt ista deorum
ignavus genitor? Tu saltem debita vindex                           80
huc ades et totos in poenam ordire nepotes.
I    ndue quod madidum tabo diadema cruentis
unguibus abripui, votisque instincta paternis
i media in fratres, generis consortia ferro
dissiliant. da, Tartarei regina barathri,                                 85
quod cupiam vidisse nefas, nec tarda sequetur
mens iuvenum: modo digna veni, mea pignora nosces.›

Già Edipo, scavati gli empi occhi con la mano punitrice, aveva immerso la sua onta nel supplizio d’un’eterna notte, e in lunga morte conduceva la vita. Cerca le tenebre, e sta nel più profondo recesso della casa, lungi dalla luce del cielo: ma a lui d’intorno s’aggira, con incessante batter d’ali, la luce orrenda della mente; nel cuore le Furie delle colpe. Allora mostra al cielo le orbite svuotate, supplizio sanguinante e tremendo della sua vita, e con le mani cruente batte la cava terra e con voce terribile prega: «Dèi, che regnate sulle anime colpevoli e sul Tartaro ormai troppo angusto per i castighi, e tu livido Stige dall’oscuro fondale, che io vedo, e tu Tisifone, da me così spesso invocata, dammi ascolto, esaudisci le mie empie preghiere: se qualche merito ho avuto nei tuoi riguardi, se nel tuo seno mi ristorasti al mio cadere dal grembo materno e risanasti le trafitture dei miei piedi; se, mentre potevo vivere contento di Polibo, che credevo mio padre, mi recai alle onde di Cirra che scorrono tra due cime di monti, e nella stretta del trivio della Focide uccisi un re carico d’anni, squarciando il viso al vecchio tremante, mentre andavo in cerca di mio padre; se per astuzia d’ingegno e per tua ispirazione sciolsi gli enigmi della Sfinge malvagia; se con gioia m’abbandonai alle furie d’amore, all’orrida unione con la madre e soffersi tante notti esecrabili, se generai figli (lo sai bene) a te destinati; se più tardi, bramoso di castigo, non esitai ad affrontare lo strazio delle mie dita, e gli occhi lasciai in grembo alla madre sventurata: ascoltami, se è degno di te quel che ti chiedo, e tale che tu stessa lo concederesti al mio furore. Cieco come sono, e privo del regno, i figli che generai (non importa da quale letto) non m’hanno dato un appoggio, non il conforto d’una parola, nel mio dolore: anzi con alterigia (quale tormento!), divenuti re sulla mia morte, scherniscono le mie tenebre e hanno orrore dei lamenti del padre. Pure per essi sono funesto? E vede queste cose, e non provvede, il padre degli dèi? Ma tu, tu almeno vieni qui, porta la dovuta vendetta e appresta il castigo a tutti i miei discendenti. Cingi il diadema che, intriso d’umore, ho strappato con le unghie cruente e, istigata dalle preghiere d’un padre, vai tra i due fratelli, perché spezzino col ferro i vincoli del sangue. Manda a compimento, regina degli abissi del Tartaro, un tale misfatto ch’io debba bramare di vederlo. La mente di quei giovani non tarderà a seguirti: vieni, e riconoscerai, di me degni, i miei figli».