Testo: Stazio, Tebaide
Testo e traduzione da P. P. Stazio, Opere (a cura di A.Traglia e G. Aricò), Utet 1980
X, 897-939
Non tamen haec turbant pacem Iovis: ecce quierant
iurgia, cum mediis Capaneus auditus in astris.
‘Nullane pro trepidis’ clamabat, ‘numina Thebis
statis? Ubi infandae segnes telluris alumni, 900
Bacchus et Alcides? Pudet instigare minores.
Tu potius venias — quis enim concurrere nobis
dignior? En cineres Semeleaque busta tenentur — ,
nunc age, nunc totis in me conitere flammis,
Iuppiter! An pavidas tonitru turbare puellas 905
fortior et soceri turres exscindere Cadmi?’
Ingemuit dictis superum dolor; ipse furentem
risit et incussa sanctarum mole comarum,
‘quae non spes hominum tumidae post proelia Phlegrae!
Tune etiam feriendus?’ ait. Premit undique lentum 910
turba deum frendens et tela ultricia poscit,
nec iam audet fatis turbata obsistere coniunx.
Ipsa dato nondum caelestis regia signo
sponte tonat, coeunt ipsae sine flamine nubes
adcurruntque imbres: Stygias rupisse catenas 915
Iapetum aut vinctam supera ad convexa levari
Inarimen Aetnamve putes. Pudet ista timere
caelicolas; sed cum in media vertigine mundi
stare virum insanasque vident deposcere pugnas,
mirantur taciti et dubio pro fulmine pallent. 920
Coeperat Ogygiae supra fastigia turris
arcanum mugire polus caelumque tenebris
auferri: tenet ille tamen, quas non videt, arces,
fulguraque attritis quotiens micuere procellis,
‘His’ ait, ‘in Thebas, his iam decet ignibus uti, 925
hinc renovare faces lassamque accendere quercum.’
Talia dicentem toto Iove fulmen adactum
corripuit: primae fugere in nubila cristae,
et clipei niger umbo cadit, iamque omnia lucent
membra viri. Cedunt acies, et terror utrimque, 930
quo ruat, ardenti feriat quas corpore turmas.
[Intra se stridere facem galeamque comasque
quaerit, et urentem thoraca repellere dextra
conatus ferri cinerem sub pectore tractat].
Stat tamen, extremumque in sidera versus anhelat 935
pectoraque invisis obicit fumantia muris,
ne caderet: sed membra virum terrena relinquunt,
exuiturque animus; paulum si tardius artus
cessissent, potuit fulmen sperare secundum.
Tuttavia nulla di ciò turba la serenità di Giove; e già erano smessi gli alterchi, quando nel mezzo del cielo si ode la voce di Capaneo. «Dunque», gridava, «Tebe è in pericolo, dèi, e nessuno di voi si muove in sua difesa? Dove sono i vili figli di questa terra maledetta, Bacco e Alcide? Ma ho vergogna di provocare gli dèi minori. Vieni tu stesso (chi è più degno di scontrarsi con me? Vedi, le ceneri e la tomba di Semele sono in mio potere), vieni dunque, Giove, e lancia contro me tutti i tuoi fulmini! O hai forza soltanto per atterrire col tuono le fanciulle paurose e per abbattere le torri di Cadmo tuo suocero?»
A queste parole, gli dèi, sdegnati, gemettero; Giove rise di quella follia e, scuotendo la massa delle sante chiome, disse: «Quali speranze nutrono ancora gli uomini, dopo il temerario assalto di Flegra? Anche te devo colpire?» D’ogni parte lo incalzano in folla gli dèi; deplorano la sua calma, reclamano i dardi che castigano; pure la sposa, turbata, non osa più opporsi al destino. Già da sola la reggia celeste, senza aspettare il segnale, comincia a tuonare; le nubi si addensano senza vento, i nembi si radunano. Si direbbe che Giapeto abbia infranto le catene stigie o che Inarime vinta o l’Etna si sollevino fino alle volte del cielo. Gli dèi hanno vergogna di provare simili paure; ma nel vedere quell’eroe, dritto in mezzo alla rovina del mondo, provocarli a lotta insensata, stupiscono in cuore e impallidiscono, dubitando del potere del fulmine. Il cielo cominciava a brontolare sordamente, sopra la cima della torre Ogigia, la volta a oscurarsi; quello s’attacca ancora alle rocche, senza vederle e, ogni volta che balena la folgore, per il cozzare dei nembi: «Queste», grida, «sono le fiamme che bisogna lanciare contro Tebe, con cui bisogna ravvivare le torce e riaccendere la quercia morente». Cosi diceva, e un fulmine l’investì in pieno, scagliato da Giove con tutta la sua forza. Prima il cimiero volò verso il cielo, poi l’umbone dello scudo cade bruciato, e già avvampano tutte le sue membra. Indietreggiano i due eserciti, guardano con terrore dove vada a cadere, quali schiere colpisca col corpo ardente. [Egli sente il fuoco che gli brucia il petto, l’elmo, i capelli; con la mano cerca di strapparsi la corazza ardente, ma non trova, sotto il petto, che la cenere del ferro]. Tuttavia sta in piedi; esala verso il cielo l’ultimo respiro e appoggia, per non cadere, il petto fumante alle odiate mura; ma le membra mortali abbandonano l’eroe, l’anima resta spoglia. Se il corpo avesse ancora un po’ resistito, avrebbe potuto sperare in un secondo fulmine.
XII, 420-446
Stabat adhuc seu forte rogus, seu numine divum, 420
cui torrere datum saevos Eteocleos artus,
sive locum monstris iterum Fortuna parabat,
seu dissensuros servaverat Eumenis ignes,
Hic tenuem nigris etiamnum advivere lucem
roboribus pariter cupidae videre, simulque 425
flebile gavisae; nec adhuc, quae busta, repertum,
sed placidus quemcumque rogant mitisque supremi
admittat cineris consortem et misceat umbras.
Ecce iterum fratres: primos ut contigit artus
ignis edax, tremuere rogi et novus advena busto 430
pellitur; exundant diviso vertice flammae
alternosque apices abrupta luce coruscant.
Pallidus Eumenidum veluti commiserit ignes
Orcus, uterque minax globus et conatur uterque
longius; ipsae etiam commoto pondere paulum 435
secessere trabes, conclamat territa virgo:
‘Occidimus, functasque manu stimulavimus iras.
Frater erat: quis enim accessus ferus hospitis umbrae
pelleret? En clipei fragmen semiustaque nosco
cingula, frater erat! cernisne, ut flamma recedat 440
concurratque tamen? Vivunt odia improba, vivunt,
Nil actum bello; miseri, sic, dum arma movetis,
vicit nempe Creon! Nusquam iam regna, quis ardor?
Cui furitis? Sedate minas; tuque exsul ubique
semper inops aequi, iam cede: hoc nupta precatur, 445
hoc soror, aut saevos mediae veniemus in ignes.’
Uno solo ne restava, o per caso o per volere divino, alle cui famme era stato assegnato il corpo di Eteocle crudele, sia che la Fortuna preparasse nuovi prodigi sia che fosse l’Eumenide a mantenere in vita le fiamme prossime a scindersi. Qui, nella loro ansia comune, esse videro, fra i neri tizzoni, un barlume di luce ancor viva, ed entrambe provarono una triste gioia; ancora non sanno di chi sia quella pira, ma lo pregano, chiunque egli sia, di dividere di buon grado con un compagno il suo rogo funebre, di confondere con lui la sua ombra.
Ma ecco di nuovo i fratelli: appena il fuoco vorace tocca le membra, il rogo trema, il nuovo ospite è respinto dal tumulo; le fiamme, scindendosi alla cima, traboccano, si rompono in due lingue guizzanti di fuoco. Come se il pallido Orco avesse messo in conflitto le torce delle Eumenidi, così da entrambi i corpi le fiamme si levano minacciose, sforzandosi di separarsi; pure la massa del rogo trema, e le travi si allentano. La vergine grida atterrita: «Siamo perdute: abbiamo riattizzato, di nostra mano, gli odi ormai spenti. Era il fratello; chi sarebbe stato così crudele da rifiutare a un’altra ombra l’ospitalità? Ecco, riconosco un frammento dello scudo e il cinturone mezzo bruciato: era il fratello! Vedi come la fiamma si ritira e poi torna a lottare?
Vive, si, vive ancora l’odio maledetto. La guerra non è finita; e così, sciagurati, mentre voi combattete, ha vinto Creonte! Ma il regno non c’è più; perché questo furore? Contro chi vi accanite?
Basta con le minacce; e tu, esule ovunque, cedi per primo, tu sempre escluso da ciò che ti spettava: questo ti chiede tua moglie, questo la sorella, o verremo noi a separare le vostre empie fiamme».