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Editoriale 1996-2

by Mariapina Dragonetti

a cura della Redazione


Mentre scriviamo questa nota, la «guerra del latino» ha avuto un ‘improvvisa recrudescenza. Lo spunto è venuto da un articolo pubblicato sulla rivista Micromega da un non specialista, l’architetto Giancarlo Rossi, che spezzava una lancia in favore del latino partendo soprattutto dalla prospettiva del latino come lingua viva. Trattandosi di una rivista elitaria di grande prestigio, l’intervento ha immediatamente avuto un’ eco molto vasta sui quotidiani: come spesso avviene, l’affronto giornalistico di temi così importanti e complessi è stato talmente semplicistico e superficiale, e le riprese dell’ articolo apparso su Micromega sono state condotte con tale approssimazione, che i successivi interventi, in luogo di mettere a fuoco con maggior precisione i reali contorni del problema, hanno finito per annebbiarli e offuscarli in maniera irrimediabile. Ad esempio, per mostrare la vitalità del latino è stata pubblicata su una pagina centrale del Corriere della Sera la traduzione latina di una lettera inviata da Massimo D’ Alema ad Antonio Di Pietro: esempio pessimamente scelto per almeno due motivi: il primo è che già in italiano quella lettera interessa poco o niente il lettore medio (vorremmo dire il comune mortale), e non si vede perché una sua traduzione in latino dovrebbe renderla più appassionante; il secondo è che non si capisce quale motivo di stupore debba comportare il fatto che un passo di prosa italiana venga tradotto in latino: anche a prescindere dalle considerazioni meramente teoriche che affermano la piena traducidibilità da una lingua all’altra in conseguenza del principio dell’ onnipotenza semantica dei sistemi linguistici (vi saranno naturalmente sostituzioni o perdite di informazioni, in qualche caso anche gravi, ma ogni lingua è in linea di principio traducibile in un’ altra), non dovrebbe destare stupore o ammirazione la traduzione latina di un breve testo italiano, quando l’esercizio di versione dall’italiano in latino (anche di testi concettualmente ben più impegnativi) ha costituito prova d’esame nelle maturità liceali (classica e scientifica) fino al 1968. Nei giorni successivi i lettori del principale quotidiano italiano si sono dovuti sorbire anche pezzi di colore sulle sventure a cui va incontro un paese guidato da una classe dirigente “slatinata” (sic!) o sui danni che ha recato all’Italia da qualche secolo l’influsso di una lingua come il latino, definita di volta in volta astrusa, autoritaria, ecclesiastica, addirittura cacofonica: pare che sia stata la sua presenza incombente a frenare il progresso civile e politico della nostra Italia! Il tono del dibattito insomma è rapidamente scaduto, al punto da lasciare poche speranze in una sua positiva conclusione: non speravamo certo che gli intellettuali o i politici esprimessero ragionevoli o serene convinzioni su un argomento così impegnativo e così delicato (non sempre i rappresentanti del mondo della cultura si sono distinti in meglio: ci è toccato leggere alcuni pareri di insigni italianisti che ci hanno destato preoccupazione, perché se ne ricava implicitamente la netta impressione che l’interesse degli italianisti verso il retroterra culturale della nostra tradizione letteraria sia assai limitato anche ai livelli più alti dell’istruzione: trascuriamo poi il fatto che si sia presa anche quest’occasione per innescare qualche puntata polemica anticattolica), ma ci sarebbe piaciuto che almeno la discussione aiutasse a definire con maggiore puntualità l’oggetto del dibattito. Neppure nel quotidiano cattolico Avvenire abbiamo trovato un maggior equilibrio: si veda, nella pagina culturale del 23 novembre, lo sfogo di Rosso Malpelo («con livore e superficialità di scuola sgarbesca», lamenta Giancarlo Rossi in una lettera pubblicata 1’8 dicembre 1996).

Abbiamo deliberatamente scelto di non intervenire in questa polemica, tutto sommato sterile, con un documento o una nostra presa di posizione: preferiamo qui esprimere, dinanzi ad un pubblico sicuramente più ristretto di quello raggiungibile dal Corriere, ma, speriamo, più disponibile e più competente, qualche considerazione.

1. Ci fa indubbiamente piacere che il dibattito sia stato riaperto da una rivista di sinistra, alla quale per di più collaborano intellettuali di spicco: una rivista insomma che fa opinione più per il prestigio di cui gode che per il numero dei suoi lettori. Fino a pochi anni fa l’insegnamento delle lingue classiche, e più in generale l’interesse per gli antecedenti storici della nostra civiltà era oggetto di scomunica più o meno velata all’interno di determinate cerchie: se si esclude Concetto Marchesi, non ci risulta che altri abbiano osato difendere il latino dalle colonne dell’Unità (se non fosse così, saremo naturalmente ben lieti di smentirci): per non essere emarginati, gli antichisti di sinistra dovevano trasformarsi in antropologi (cioè riconvertire o riciclare la propria preparazione verso un sapere in qualche modo legittimato) oppure occuparsi di problematiche moderne. In questo senso l’articolo su Micromega parrebbe segnare un positivo passo avanti rispetto a una mentalità molto diffusa in un passato neppure tanto lontano: dopo che la cultura di sinistra ha proclamato l’abbandono di tante posizioni (e di tanti dogmi) solennemente sostenuti fino a non molti anni fa, un ravvedimento, se non proprio un pentimento, anche in questo ambito non ci farebbe dispiacere: ma non ci induce all’ottimismo il modo con cui il dibattito è stato condotto sui giornali, e inoltre al ravvedimento dovrebbe seguire qualche gesto concreto: i segnali che vengono dal primo ministro della pubblica istruzione proveniente da questo retroterra culturale sembrano muovere in una direzione esattamente contraria.

2. Ci spiace che, ancora una volta, il dibattito sia stato posto e condotto dal punto di vista della «attualità» del latino e del suo carattere di lingua viva. Nei confronti degli assertori del latino vivo abbiamo esposto a più riprese le nostre perplessità, che hanno motivazioni sia linguistiche (il carattere artificioso di tanti esempi di latino vivo, in cui a semplici lessemi delle lingue moderne corrispondono circonlocuzioni macchinose, quali nessuna lingua realmente viva accetterebbe) sia didattiche (è assurdo pretendere d’insegnare il latino attraverso dialoghetti e filastrocche: tra l’altro non si vede perché si dovrebbe applicare al latino un metodo d’insegnamento che il più delle volte risulta fallimentare nell’insegnamento delle lingue moderne).

3. Come conseguenza di quanto detto, l’enfasi del dibattito è stato posto sull’insegnamento della lingua, complici anche le recenti ineffabili prese di posizione del ministro, che aveva esternato e si era rimangiato, nel giro di poche ore, l’opinione che si dovesse reintrodurre il latino nelle medie inferiori. Sulla base di questo spostamento di piani, non ci sembra irragionevole l’intervento di chi ha scritto sul Corriere che sarebbe un lusso quello d’insegnare il latino a ragazzi che non sanno nemmeno leggere, scrivere e far di conto: posta in questi termini, l’obiezione ha una sua validità innegabile: solo che la risposta da dare a questa affermazione non è quella di una semplice rassegnazione a una situazione di fatto giudicata insoddisfacente, bensì quella di chiedersi perché, e per quali responsabilità, si sia arrivati a una scuola dell’obbligo che non è più in grado neppure di trasmettere i più elementari dei contenuti.

4. L’ottica in cui il nostro lavoro si muove è completamente diversa. La nostra preoccupazione prima non è quella di reintrodurre l’insegnamento del latino o di difendere l’insegnamento del greco (seriamente minacciato, a quanto ci consta): questa è una conseguenza, e sicuramente una conseguenza molto importante, per la quale ci batteremo con ogni mezzo: ma perché questa conseguenza sia pienamente difendibile, occorre innanzitutto che siano chiari i presupposti a cui si ispira la posizione di chi difende la cultura classica nelle scuole. Quello che noi affermiamo prioritariamente è l’assoluta necessità di mantenere una memoria viva del nostro passato, perché una società senza passato è facilmente preda di qualunque suggestione, di qualunque progetto, di qualunque demagogia, anche le più contrarie all’uomo. Crediamo che sia compito fondamentale della scuola quello di mantenere viva la nostra identità culturale, coi valori insostituibili che la contraddistinguono: è vaniloquio parlare di Europa, quando poi si dimentica che essere cittadini dell’Europa significa primariamente condividere un orizzonte culturale che ha le sue radici fondamentali nel Cristianesimo e nella cultura greco-romana: sono di estremo conforto in questo senso i continui richiami di Giovanni Paolo II, lungo il corso di tutto il suo pontificato, al fatto che l’identità culturale europea non è scindibile né dal Cristianesimo né dal sostrato culturale greco-romano (una breve antologia di passi in cui il pontefice esprime questo pensiero sono raccolti in altra parte di questo fascicolo). In un regime che vuol essere democratico nella sostanza, e non solo nella forma, la consapevolezza dell’identità culturale che ci definisce come cittadini e come persone non può essere patrimonio di soli pochi specialisti: la democrazia esige anche che il sapere non divenga proprietà esclusiva di una classe o di un gruppo di persone, che fatalmente verrebbero ad avere una posizione predominante all’ interno della società: la persistente volontà di abbassare il livello dell’insegnamento, come hanno fatto alcuni ministri della pubblica istruzione (non si capisce se semplicemente vanagloriosi o disinformati oppure animati da un disegno perverso), può essere funzionale solo a un progetto di dominio incontrastato sulle masse da parte di una casta di pochi privilegiati, un progetto che rifiutiamo con tutte le nostre forze. È a partire da queste considerazioni che riaffermiamo l’importanza di uno studio del nostro passato, e più in particolare delle radici che ne costituiscono il tratto più distintivo e caratterizzante, in tutte le scuole. Ciò non significa né imporre il greco e il latino in tutti gli ordini della scuola secondaria, né confinare a un numero irrisorio di studenti l’apprendimento di queste discipline (come si è fatto in altri paesi europei, e come si è progettato a più riprese di fare in Italia). Noi miriamo a ribadire che in un progetto di globale formazione delle persona è essenziale che sia rilevata l’importanza insostituibile del momento umanistico in un quadro di paideia, cioè di potenziamento delle capacità critiche dell’individuo, e che in questo momento umanistico il richiamo alla memoria delle nostre origini debba avere il posto che gli spetta di diritto: gli strumenti per ottenere questo risultato saranno diversi e vari, proporzionati sia all’età sia alla vocazione degli studenti: non il latino per tutti, ma neppure un latino emarginato e destinato a pochissimi (che verrebbero poi trattati alla stregua di perditempo o di fanatici).

Purtroppo la direzione in cui si sta andando non è affatto questa: mentre i ministri economici fanno di tutto per anticipare l’ingresso dell’Italia nell’Europa, anche a costo di sottrarre preziose risorse alle famiglie e al paese, il ministro della pubblica istruzione ha deciso di rendere l’Europa sempre più estranea allo sguardo degli studenti. Il recente decreto di riforma dei programmi di storia è un colpo durissimo inferto alla credibilità della scuola italiana, qualunque cosa ne dicano giornalisti, intellettuali, opinionisti, accademici (di regime, ma in qualche caso anche d’opposizione), che comunque si segnalano quasi sempre per l’assoluta disinformazione che mostrano nei confronti della scuola (alla luce di quel che leggiamo, dubitiamo spesso che questi signori abbiano fatto studi regolari: ma almeno attraverso i figli dovrebbero pur avere qualche informazione su come funziona la scuola). Restringere l’ottica al solo presente significa di fatto porsi drammaticamente fuori dal tempo, rassegnarsi ad essere incapaci di esprimere giudizi che abbiano serie motivazioni, limitarsi alla prospettiva angusta e disorientante del proprio particulare: dedicare un anno di studio al Novecento non è qualitativamente diverso dal dedicare un anno di studio al proprio villaggio, avendo una visione sfocata e approssimativa di tutto quello che è al di là del fiume o del colle che delimita la visuale di chi vi abita. Molti giornalisti hanno espresso la preoccupazione che lo studio del Novecento si presta alla strumentalizzazione di parte: ma non è questo (o comunque non è solo questo) il nodo del problema, perché volendo si possono fare affiorare criteri di giudizio faziosi anche studiando i Gracchi o Giulio Cesare: diciamo piuttosto che una scuola che privilegia il presente è una scuola che si condanna alla superficialità, all’enfasi dell’effimero, in una parola alla acriticità. È una scuola in cui, invece di apprendere e di allargare la propria cultura, si «affrontano i problemi», cioè si discute e si dibatte sul nulla, si decide ciò che è buono e ciò che è cattivo senza aver presenti i dati o soprattutto senza possedere i criteri di giudizio che permettono di arrivare alle conclusioni. È inutile far finta di negare che vi sia un disegno perverso in tutto ciò: questo continuo, parossistico richiamo alle problematiche del presente, questo proclamare che la scuola doveva essere attenta ai problemi del presente, respingendo sullo sfondo ed emarginando qualunque cosa non avesse immediata e diretta attinenza con l’attualità, aveva caratterizzato la scuola italiana negli anni immediatamente successivi al Sessantotto: un ricordo che conserviamo di quell’anno, allora, per chi l’ha vissuto, difficile e complesso, oggi superficialmente mitizzato, è quello di un gruppo di studenti che davanti all’Università Cattolica di Milano urlavano «Via San Tommaso dalla nostra storia». Ritenevamo che a quasi trent’anni di distanza certe tensioni e certe forzature si fossero smorzate e decantate, e che fosse stata ormai acquisita una consapevolezza comune dell’assurdità di certe idee (o meglio, di certi slogan) propugnate in quei momenti convulsi: e invece quegli studenti di allora hanno trovato, sia pure a distanza di tempo, un ministro della pubblica istruzione che (poco per volta, ma in modo sempre più netto) sta facendo il loro gioco e li sta accontentando.