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La primavera e l’uomo

by Mariapina Dragonetti

a cura della Redazione

(da Zetesis 93-2/3 e successivamente modificato)

Proponiamo alcuni testi in cui ricorre il tema della primavera confrontata con la realtà degli uomini. Il confronto è per lo più motivo di riflessioni malinconiche, che rilevano l’inferiorità dell’uomo in generale, o di qualcuno in particolare, rispetto alla natura. Il motivo di questa inferiorità può essere la capacità della natura di rinnovarsi, di ritornare giovane, mentre l’uomo va inesorabilmente verso la morte: è il tema dell’ ode oraziana IV, 7:

Diffugere nives, redeunt iam gramina campis
    arboribusque comae;
mutat terra vices et decrescentia ripas
    flumina praetereunt;
Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet
    ducere nuda choros.
Immortalia ne speres, monet annus et almum
    quae rapit hora diem.
Frigora mitescunt Zephyris, ver proterit aestas,
    interitura simul
pomifer autumnus fruges effuderit, et mox
    bruma recurrit iners.
Damna tamen celeres reparant caelestia lunae;
    nos, ubi decidimus,
quo pater Aeneas, quo Tullus dives et Ancus,
    pulvis et ombra sumus.
Quis scit an adiciant hodiernae crastina summae,
    tempora di superi?
Cuncta manus avidas fugient haeredis, amico
    quae dederis animo.
Cum semel occideris et de te splendida Minos,
    fecerit arbitria,
non Torquate genus, non te facundia, non te
    restituet pietas.
Infernis neque enim tenebris Diana pudicum
    liberat Hippolytum,
nec Lethaea valet Theseus abrumpere caro
    vincula Pirithoo.

Francesco Albani, Primavera olio su tela ( 1617), Galleria Borghese, Roma

Il motivo è ripreso soggettivamente da G. Carducci nella poesia di Rime nuove scritta nel 1871 per il figlio Dante morto l’anno prima: non è tanto la natura in generale, ma una pianta particolare che si rinnova al tornare della bella stagione; ed è sul bambino che s’incentra la riflessione esistenziale. Tuttavia l’anafora tu … tu richiama l’oraziano te … te (v. 23) e il titolo inserisce il motivo personale in una tradizione più vasta.

PIANTO ANTICO

L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno,
da’ bei vermigli fior,

nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora,
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior

sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra,
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.

Anche in una lirica di Quasimodo ritroviamo il contrasto espresso soggettivamente, ma il tema è assai più sfumato: l’albero si rinnova in primavera, mentre il poeta si “piega e secca”, quasi sostituendosi all’albero nell’invecchiare (da Acque terre, 1920-29)

ALBERO

Da te un’ombra si scioglie
che par morta la mia
se pure al moto oscilla
o rompe fresca acqua azzurrina
in riva all’ Anapo, a cui tomo stasera
che mi spinse marzo lunare
già d’erbe ricco e d’ali.
Non solo d’ombra vivo,
ché terra e sole e dolce dono d’acqua
t’ha fatto nuova ogni fronda,
mentr’io mi piego e secco
e sul mio viso tocco la tua scorza.

Più frequentemente incontriamo il contrasto fra la positività della natura in primavera e la negatività della condizione in cui il poeta si trova, in genere a causa dell’amore infelice. Il tema ricorre in Ibico (fr. 5 P): a primavera la natura gode di riposo e frescura, negate invece al poeta (o alla persona a cui egli dà voce, visto che si tratta di un frammento di lirica corale):

ἦρι μὲν αἵ τε Κυδώνιαι
μηλίδες ἀρδόμεναι ∙οᾶν
ἐκ ποταμῶν, ἵνα Παρθένων
κῆπος ἀκήρατος, αἵ τ’ οἰνανθίδες
αὐξόμεναι σκιεροῖσιν ὑφ’ ἕρνεσιν
οἰναρέοις θαλέθοισιν· ἐμοὶ δ’ ἔρος
οὐδεμίαν κατάκοιτος ὥραν.
τε ὑπὸ στεροπᾶς φλέγων
Θρηίκιος Βορέας
ἀίσσων παρὰ Κύπριδος ἀζαλέ-
αις μανίαισιν ἐρεμνὸς ἀθαμβὴς
ἐγκρατέως πεδόθεν φυλάσσει
ἡμετέρας φρένας.

“A primavera i meli cotogni, irrigati dalle correnti dei fiumi, là dov’ è il giardino incorrotto delle Vergini, e i fiorellini della vite, che crescono sotto gli ombrosi tralci ricchi di pampini, germogliano; per me invece Amore non riposa in nessuna stagione. E come il tracio Borea fiammeggiante per il fulmine, così, balzando dal grembo di Venere, con aride pazzie, cupo, indomabile, potentemente dal profondo tiene il mio cuore”.

Nella poesia medioevale il contrasto fra la gioia diffusa nella natura a primavera e l’infelicità dell’amante è un tema frequentissimo. Riportiamo due brani di trovieri del XII secolo: la prima strofa di una canzone di Blondel de Nesle:

Li rosignous a noncié la nouvele
lai que la sesons du douz tens est venue
que toute riens renest et renouvele,
que li pré sont couvert d’erbe menue.
Pour la seson qui se change et remue,
chascuns fors moi s’esjolst et revele.
Las! car si m’est changiee la merele
qu’on m’a geti en prison et en mue.

“L’usignolo ha annunciato la notizia che la stagione del dolce tempo è venuta, che ogni cosa rinasce e si rinnova, che i prati sono coperti d’erbetta. Per la stagione che cambia e muta, ciascuno tranne me gioisce e si rallegra. Ahimè! Giacché mi si è così cambiata la sorte che mi hanno gettato in prigione e in gabbia.”

Frans Snyder (1579-1657), Concerto di uccelli, Olio su tela (1100×547), Museo del Prado, Madrid.

Ed ecco la strofa iniziale di una canzone del troviero Gace Brulé:

Quant voi la flor boutoner,
qu’esclarcissent nuage,
et j’oi l’aloe chanter
du tens qui rassouage,
las! ne me puis conforter, – ,
qu’amours veut mon damage.
A celi me fait penser
qui me tient a outrage.
Ha! fins amis
morrai, ce m’est vis.
Ja voir n’en partirai vis:
trop m’a sourpris. 

“Quando vedo i fiori mettere i boccioli, e i fiumi diventano trasparenti, e odo l’allodola cantare il tempo sereno, ahimè, non mi posso confortare, perché amore vuole la mia rovina. Mi fa pensare a colei che mi fa torto. Ah! cari amici, morirò, lo so bene. Non smetterò di vederla: troppo mi ha conquistato.”

Il contrasto fra il generale clima festoso della primavera e la situazione di un amore infelice ritorna in Metastasio. La descrizione è lunga e dettagliata, travalica il rinnovarsi della natura e comporta la felicità di molte categorie di uomini, pastorelle, pescatore, pellegrino, nocchiero. Notiamo però come questa felicità abbia qualcosa di provvisorio: i fiori saranno tranciati dall’aratro, la rondine catturata  dal cacciatore, il nocchiero reduce dal naufragio sembra solo dimenticare l’orrore vissuto in mare. D’altra parte l’infelicità dell’amante, già proclamata nella seconda strofa, si stempera nelle strofe finali, prima con una dichiarazione d’indipendenza poi con amorosa sottomissione.

LA PRIMAVERA
Scritta in Roma l’anno 1719.

Già riede primavera
col suo fiorito
 aspetto;
già il grato zeffiretto
scherza fra l’erbe e i fior.
Tornan le frondi agli alberi,
l’erbette al prato tornano;
sol non ritorna a me
la pace del mio cor.
Febo col puro raggio
sui monti il gel discioglie,
e quei le verdi spoglie
veggonsi rivestir.
E il fiumicel, che placido
fra le sue sponde mormora,
fa col disciolto umor
il margine fiorir.
L’orride querce annose
su le pendici alpine
già dal ramoso crine
scuotono il tardo gel.
A gara i campi adornano
mille fioretti tremuli,
non violati ancor
da vomere crudel.
Al caro antico nido
fin dall’egizie arene
la rondinella viene,
che ha valicato il mar;
che, mentre il volo accelera,
non vede il laccio pendere,
e va del cacciator
l’insidie ad incontrar.
L’amante pastorella
già più serena in fronte
corre all’usata fonte
a ricomporsi il crin.
Escon le greggie ai pascoli;
d’abbandonar s’affrettano,
le arene il pescator,
l’albergo il pellegrin.
Fin quel nocchier dolente,
che sul paterno lido,
scherno del flutto infido,
naufrago ritornò;
nel rivederlo placido
lieto discioglie l’ancore;
e rammentar non sa
l’orror che in lui trovò.
E tu non curi intanto,
Fille, di darmi aìta;
come la mia ferita
colpa non sia di te.
Ma, se ritorno libero
gli antichi lacci a sciogliere,
no che non stringerò
più fra catene il piè.
Del tuo bel nome amato,
cinto del verde alloro,
spesso le corde d’oro
ho fatto risonar.
Or, se mi sei più rigida,
vuo’ che i miei sdegni apprendano
del fido mio servir
gli oltraggi a vendicar.
Ah no; ben mio, perdona
questi sdegnosi accenti;
che sono i miei lamenti
segni d’un vero amor.
S’è tuo piacer, gradiscimi;
se così vuoi, disprezzami;
o pietosa, o crudel,
sei l’alma del mio cor.

Peter Brughel il Giovane, Primavea, olio su tela cm. 42×57; Collezione privata

La poetessa del XIII secolo che conosciamo col nome di Compiuta Donzella ci ha lasciato un sonetto dalla struttura ad anello (foglia e fiora … fior né foglia) in cui il rinascere della natura trova la sua corrispondenza nelle gioie degli innamorati; in opposizione a tale corrispondenza vi è la situazione della donna (e me, quasi esattamente a metà del sonetto), angosciata dalla prospettiva di un matrimonio a cui il padre vuole forzarla e incapace quindi di godere della bellezza della primavera.

A la stagion che ’l mondo foglia e fiora
acresce gioia a tut’ i fin’ amanti:
vanno insieme a li giardini alora
che gli auscelletti fanno dolzi canti;

la franca gente tutta s’inamora,
e di servir ciascun trages’ inanti,
ed ogni damigella in gioia dimora;
e me, n’abondan marimenti e pianti.

Ca lo mio padre m’ha messa ’n erore,
e tenemi sovente in forte doglia:
donar mi vole a mia forza segnore,

ed io di ciò non ò disio né voglia,
e ’n gran tormento vivo a tutte l’ore;
però non mi ralegra fior né foglia
.

Il tema s’incontra in un sonetto del Petrarca in morte di Laura, che presenta un intreccio di motivi: al più evidente, il tema della gioia non condivisa, che l’apparenta ai testi dei trovieri, si aggiunge il tema della primavera come stagione degli amori, in contrasto con la solitudine del poeta, il tema del rinnovarsi della vita, mentre Laura è morta, e l’ulteriore amarezza della coincidenza fra la primavera e l’anniversario della morte (CCCX):

Zefiro torna e ’l bel tempo rimena
e i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia,
e garrir Progne e pianger Filomena,
e primavera candida e vermiglia;

ridono i prati e il ciel si rasserena,
Giove s’allegra di mirar sua figlia,
l’aria e l’acqua e la terra è d’amor piena,
ogni animal d’amar si riconsiglia.

Ma per me, lasso, tornano i più gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch’al ciel se ne portò le chiavi,

e cantar augelletti e fiorir piagge
e ’n belle donne oneste atti soavi
sono un deserto e fere aspre e selvagge.

Esiste tuttavia anche una diversa soluzione del confronto fra l’uomo e la natura: l’amore felice fa cantare anche quando la natura è oppressa e resa muta dall’inverno. Troviamo questa inversione di tema in un’altra canzone di Gace Brulé (prima strofa):

Quant flors et glaiz et verdure s’esloigne,
que cil oisel n’osent un mot soner,
por la froidour chascuns doute et resoingne
jusqu’au beau temps que il suelent chanter,
je chanterai, que ne puis oblier
la bone amour dont Dex joie me doigne,
que de li sont et viennent mi penser.

“Quando i fiori e i giaggioli e la verzura se ne vanno e gli uccelli non osano emettere un suono, e per il freddo tutti esitano e temono fino alla bella stagione in cui sono soliti cantare, io canterò, perché non posso dimenticare l’amore, della cui gioia Dio mi renda degno: da lì derivano e vengono i miei pensieri”.

A sua volta, la lirica provenzale conosce esempi di contrasto fra l’uomo e la natura gioiosa, ma anche esempi di coincidenza: citiamo le prime due strofe di una poesia di Arnaut de Maruelh (sec. XII-XIII):

Belli m’es quan lo vens m’alena
en abril ans qu’ entre mais,
e tota la nueg serena
chanta.l rossinhols e.l jais;
quecx auzel en son lenguatge,
per la frescor del mati,
van menan joi d’agradatge,
com quecx ab sa par s’aizi.
E pus tota res terrena
s’alegra quan fuelha nais,
no.m puesc mudar no.m sovena
d’un’amor per qu’ieu sui jais;
per natur e per uzatge ‘ ,
me ve qu’ieu vas joi m’acri,
lai quan fai lo dous auratge
que.m reve lo cor aissi.

“È bello per me quando il vento soffia in aprile prima che cominci maggio, e per tutta la notte serena cantano l’usignolo e la ghiandaia; ogni uccello nel suo linguaggio, per la frescura del mattino, esprime la gioia e il gradimento, come chi è vicino alla sua compagna. E poiché ogni cosa terrena si rallegra quando nasce la foglia, non posso evitare di ricordarrni di un amore per cui sono felice; per natura e per abitudine vedo che mi accosto alla gioia quando spira la dolce brezza che così mi ravviva il cuore”.

Anche Quasimodo in un’altra poesia di Acque e terre innova il tema, identificandosi con la natura che si rinnova invece di porsi in contrasto con essa:

SPECCHIO

Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.
E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.

A sua volta Umberto Saba identifica la primavera con l’annuncio di una rinascita della natura e, implicitamente, della Resurrezione: ma tale annuncio, già intravisto ancor prima del suo manifestarsi, turba il poeta che lo sente rivolto anche a sé. Lungi dal cogliere l’opposizione con la natura, coglie una possibilità, quasi una minaccia, di immortalità. “Dovessi”, posto da solo in un verso, fornisce la chiave di lettura: la risurrezione è una possibilità o deve avvenire per ciascuno, per tutti?

PRIMAVERA

Primavera che a me non piaci, io voglio
dire a te che di una strada l’angolo
svoltando, il tuo presagio mi feriva
come una lama. L’ombra ancor sottile
di nudi rami sulla terra ancora
nuda mi turba, quasi anch’io potessi,
dovessi
rinascere. La tomba
sembra insicura al tuo appressarsi, antica
primavera, che più d’ogni stagione
crudelmente risusciti ed uccidi.

C’è un altro contrasto legato al tema della primavera: la differenza di luogo. Ovidio è in esilio in terra getica, sulle rive del mar Nero: anche lì è primavera, ma mancano aspetti cari al poeta, le viti, le piante, e manca il fervore gioioso che caratterizza la primavera della Roma così lontana.

Frigora iam Zephyri minuunt, annoque peracto
longior antiquis visa Maeotis hiems,
inpositamque sibi qui non bene pertulit Hellen,
tempora nocturnis aequa diurna facit,
iam violam puerique legunt hilaresque puellae,
rustica quae nullo nata serente venit;
prataque pubescunt variorum flore colorum,
indocilique loquax gutture vernat avis;
utque malae matris crimen deponat hirundo
sub trabibus cunas tectaque parva facit :
herbaque, quae latuit Cerealibus obruta sulcis,
exit et expandit molle cacumen humo;
quoque loco est vitis, de palmite gemma movetur:
nam procul a Getico litore vitis abest;
quoque loco est arbor, turgescit in arbore ramus:
nam procul a Getieis finibus arbor abest,
otia nunc istic, iunctisque ex ordine ludis
cedunt verbosi garrula bella fori.

lusus equi nunc est, levibus nunc luditur armis,
nunc pila, nunc celeri volvitur orbe trochus;
nunc ubi perfusa est oleo labente iuventus,
defessos artus Virgine tinguit aqua.
scaena viget studiisque favor distantibus ardet,
proque tribus resonant terna theatra foris.
o quater, o quotiens non est numerare, beatum,

non interdicta cui licet urbe frui!
(Tristia, III, 12, vv. 1-27)

E ci sono nel mito grecoromano luoghi di primavera perenne, in contrasto con il mutare delle stagioni e la loro inclemenza: sono destinati ai morti meritevoli, e si trovano sotto terra o ai confini del mondo. L’archetipo è nell’Odissea: così Proteo descrive il campo Elisio parlando con Menelao:

ἀλλά σ’ ἐς ᾿Ηλύσιον πεδίον καὶ πείρατα γαίης
ἀθάνατοι πέμψουσιν, ὅθι ξανθὸς ῾Ραδάμανθυς, —
τῇ περ ῥηΐστη βιοτὴ πέλει ἀνθρώποισιν·
οὐ νιφετός, οὔτ’ ἂρ χειμὼν πολὺς οὔτε ποτ’ ὄμβρος,
ἀλλ’ αἰεὶ ζεφύροιο λιγὺ πνείοντος ἀήτας
᾿Ωκεανὸς ἀνίησιν ἀναψύχειν ἀνθρώπους, (Od. IV, 563 segg.)—

Ti manderanno nel campo Elisio e ai confini della terra
gli dèi immortali, dov’è il biondo Radamanti;
là per gli uomini la vita è comodissima:
non vi è mai neve, né un lungo inverno né pioggia,
ma sempre il soffio armonioso del vento Favonio
l’Oceano invia per rinfrescare gli uomini.