La pronuncia del latino tradizionale o restituta?
Assistiamo da qualche tempo all’imporsi nella prassi scolastica della cosiddetta “pronunzia classica” (o restituta) del latino. Dopo che per generazioni la pronunzia tradizionale è stata l’unica ad avere circolazione nella scuola, la scelta della pronunzia cosiddetta classica, consigliata anche da innovativi orientamenti didattici che in alcune situazioni e in varie zone d’Italia godono di particolare simpatia, ha oggi un seguito abbastanza ampio: inoltre questa sta conoscendo notevole espansione in molte sedi accademiche e in ambito internazionale. Vorremmo qui considerare il problema, valutando i pro e i contro dei due metodi da un punto di vista strettamente didattico.
Prima di esprimere qualunque parere sarà utile riassumere le differenze fondamentali tra la restituta e la pronunzia tradizionale.
La restituta
La restituta intende riprodurre la pronunzia del latino dell’età cesariana o augustea; va da sé che, considerata la diffusione della lingua in questo periodo, ci saranno state varie differenti pronunzie del latino: come ci dice espressamente Cicerone (p.es. de oratore III 42), il latino di Roma (sermo urbanus) era pronunziato diversamente rispetto al latino del contado (sermo rusticus), ed è ragionevole pensare che nelle varie province dell’impero esistessero pronunzie locali. Nella stessa Roma la lingua veniva realizzata diversamente a seconda dei livelli culturali e dei ceti: esisteva un latino meno elevato (al livello più basso quello che gli antichi chiamano il sermo castrensis: il gergo dei soldati, delle taverne, dei vicoli; poi il latino delle gente comune, il cosiddetto sermo vulgaris) e un latino più elevato (sermo familiaris), quello praticato dalle persone di elevata cultura che parlavano una lingua corretta, prossima alla lingua scritta e alla varietà letteraria. La restituta assume come punto di riferimento la varietà del sermo familiaris, quella che alcuni linguisti moderni chiamano “lingua dell’uso” (o, con termine tecnico tedesco, Umgangssprache). Posto che non abbiamo (ovviamente!) registrazioni sonore dell’epoca, quali sono le fonti su cui ci basiamo per ricostruire la pronunzia di molti secoli fa? Essenzialmente: le testimonianze dei grammatici antichi e dei testi letterari (che non di rado accennano anche a problemi linguistici), le traslitterazioni di parole latine in altre lingue, e infine le iscrizioni, nei casi in cui le abitudini grafiche (e soprattutto gli errori di scrittura) riflettono cambiamenti che ci dànno modo di seguire l’evoluzione della lingua e della pronunzia. Per sommi capi, le differenze principali tra le due pronunzie sono le seguenti.
I dittonghi ae e oe (da più antichi ai e oi ancora attestati in epigrafi arcaiche) sono pronunziati come scritti, àe òe. Nella pronunzia rustica erano divenuti e (precisamente e lunga con pronunzia aperta) forse già nel I sec. a.C. Quindi si dirà làetus, fòedus (ma attenzione, una pronunzia con dittongo discendente laètus foèdus sarebbe da considerare anacronistica, perché una realizzazione del genere non è mai esistita!).
V è pronunziato u: quindi veni, vidi, vivo sono resi all’incirca ueni, uidi, uiuo. La spirantizzazione che porta alla pronunzia v comincia nel I sec. d.C. e in alcune aree interferisce col contemporaneo processo di spirantizzazione che anche b subisce, come mostrano varie confusioni grafiche (ancora oggi abbiamo in spagnolo boda ‘matrimonio’ da lat. vota).
Le consonanti c e g davanti a vocale palatale (e, i) mantengono la pronunzia velare: non c’è distinzione tra casus e cinis, tra genus e gallus. Questo spiega perché dal latino cellarium ‘cantina’ si abbia in tedesco Keller e da Caesar si abbia in greco Kaîsar, in tedesco Kaiser. La pronunzia palatale si affermò nell’epoca imperiale, con esiti diversi nelle varie aree e poi nelle lingue romanze: in parte del sardo il passaggio non avvenne del tutto e si continua a dire kentu, kerbu, iskire dal lat. centum, cervus, scire. Anche gn non aveva l’odierna pronunzia di n palatale e si usa renderlo come g + n: in realtà g davanti naveva una pronunzia di n velare (ŋ) (simile cioè a quella di it. ancora, angolo): quindi agnus pronunziato aŋnus, ma distinto da annus (in sardo abbiamo mannu, linna da magnus, ligna); gnatus pronunziato ŋatus e infine natus.
T seguita da i + vocale è pronunziata t: pertanto iustitia e natio così come sono scritte; le prime indicazioni di ts risalgono al II sec. d.C.
S intervocalico ha sempre pronunzia sorda: quindi rosa, misi con la –s– di presentire, non con la s di presentare.
Y, che si incontra solamente in parole di origine greca, nella lingua corretta è pronunziato ü (u di francese mur, lune), con la pronunzia cioè del greco letterario. Ripreso nei prestiti più antichi in modo approssimativo come u (p.es. purpura da gr. porphýra), y ha poi in latino la stessa sorte del corrispondente fonema del greco e diviene in genere i.
Anche l’evoluzione delle consonanti aspirate ph, th, ch, tutte di origine greca, è stata influenzata dalle parallele vicende delle loro omologhe greche. Nel latino arcaico ci si accontenta di trascrivere questi suoni senza aspirazione (Plauto scrive Ampitruo, e sucopanta, non sycophanta, come si ebbe successivamente): nel latino dell’età cesariana (e dunque nella pronunzia restituta) l’imitazione dei modelli greci iimpone per questi fonemi una realizzazione con una leggera aspirazione dopo l’occlusiva (philosophia, Corinthus). In séguito prevale una pronunzia fricativa, che in latino riguarda solamente ph, che viene a confondersi con f (quindi filosofia). Non mancano però incertezze e contraddizioni.
Altre caratteristiche ben documentate nell’epoca ciceroniana (per esempio la caduta di –n– nel nesso –ns-: mensis pronunziato mesis, continuato nell’italiano mese, o mensa pronunziato mesa, che si riflette nello spagnolo mesa ‘tavola’) non sono prese in considerazione, in quanto respinte dalla tradizione scolastica antica, spesso orientata dalla grafia storica delle parole (quindi mensis, mensa e così via).
La quantità vocalica
Se l’intendimento della pronunzia classica è quello di riprodurre, nei limiti del possibile, la pronunzia corrente nell’età cesariana, si dovrebbe tenere conto anche di quelli che i linguisti sono soliti chiamare “tratti prosodici”. Senza entrare in particolari troppo tecnici, ci limitiamo a richiamare per il latino il tratto della quantità e l’accento.
In latino le vocali possono essere pronunziate con una maggiore o minore durata: la diversa lunghezza della vocale costituisce un tratto distintivo per cui venit ‘viene’ è diverso da venit ‘venne’, e populus ‘pioppo’ è diverso da populus ‘popolo’; il parlante percepisce la diversa quantità vocalica, e la sua sensibilità è tale che, come ci racconta Cicerone, l’attore che sulla scena sbaglia nel pronunziare una lunga o una breve viene fischiato dal pubblico. Con un processo attuatosi in maniera diversa e in epoca diversa nelle varie province dell’impero, ma sicuramente iniziato abbastanza presto, la distinzione quantitativa è stata abbandonata, sostituita da una diversa organizzazione del sistema vocalico basato sull’apertura e sul timbro delle vocali: anziché opporre la lunga alla breve il parlante oppone la vocale chiusa alla vocale aperta, come si può apprezzare anche dalla situazione italiana: lat. novem dà in italiano nove (con o aperta), mentre solem dà sole (con o chiusa). Notiamo per inciso che quanto detto finora riguarda la quantità delle vocale, non delle sillabe: ai fini metrici a determinare i piedi e i versi è la quantità delle sillabe, che è in relazione con la quantità vocalica, ma non coincide con questa: una sillaba con vocale breve e terminante per consonante può essere considerata lunga se la sillaba successiva inizia per consonante: in arma virumque cano solamente l’ultima vocale (e di conseguenza la sillaba in cui essa si trova) è lunga, ma dal punto di vista metrico vanno considerate lunghe anche le sillabe ar di arma e rum di virumque.
L’accento
Per quanto riguarda l’accento la situazione è molto più complessa. Noi sappiamo dove si collocava l’accento latino in epoca classica: le regole cosiddette della terzultima e del trisillabismo ci consentono di stabilire che in divitem l’accento è sulla prima sillaba e in debere sulla seconda. Sappiamo anche che questa regola non ha validità assoluta in ogni epoca del latino. Nell’età più antica, anteriormente alla nascita della letteratura, l’accento cadeva sistematicamente e invariabilmente sulla prima sillaba della parola. Questo accento aveva natura espiratoria, vale a dire che la sillaba accentata era distinta dalla maggiore energia articolatoria con cui la sillaba tonica veniva realizzata, e questo sforzo determinava anche un’articolazione meno vigorosa (e spesso meno chiara) delle altre sillabe. È in grazia di questo accento molto forte che le vocali brevi in interno di parola cambiano timbro, spesso diventando i (confacio, conteneo divengono conficio, contineo), o cadono del tutto (audacter da *audaciter, reppuli da *repepuli, pono da *posino, ecc.). All’epoca di Plauto l’accento poteva ancora retrocedere fino alla quartultima sillaba, e si poteva pronunziare fàcilius, séquimini. Nell’età tarda abbiamo di nuovo un accento espiratorio: la sua collocazione corrisponde spesso, ma non sempre a quella del latino classico: p.es. si pronunzia revídet, pariétem, nonostante che le due vocali siano brevi (da qui in italiano rivede, parete), sínapi (> it. senape), benché la a sia lunga. Abbiamo ancora una certa debolezza del vocalismo interno che tende a cadere (meno spesso in italiano e rumeno, quasi sempre nelle lingue romanze occidentali), cosicché p.es. genuculum, diminutivo di genu, diviene genuclu e poi ginocchio, capulum diviene caplum e poi cappio, vetulus diviene vetlus, poi veclus e infine vecchio, e via dicendo. Abbiamo dunque discrete certezze per quanto riguarda il latino anteriormente all’epoca classica e posteriormente a questa. Ma all’epoca di Cicerone qual era veramente la natura dell’accento latino? A questa domanda sono state date due diverse risposte: secondo gli studiosi della scuola tedesca l’accento latino classico era espiratorio, come quello dell’epoca precedente e quello dell’epoca seguente; secondo gli studiosi della scuola francese (che difendono questa tesi con vigore) l’accento classico latino era di natura musicale. A questa conclusione essi arrivano esaminando le poche testimonianze che troviamo in Cicerone (Orator 173) e Quintiliano (I 5, 29 ss.), i quali sembrano accennare (ma la cosa è tutt’altro che chiara!) a elevazioni e abbassamenti della voce nella pronunzia delle parole e alla presenza di sillabe acute e circonflesse in latino. In realtà queste affermazioni, peraltro confuse, secondo molti studiosi hanno poco o nessun valore: i grammatici latini si sarebbero fatti influenzare dalla tradizione grammaticale greca: poiché il greco aveva all’epoca un’accentazione basata prevalentemente sull’intonazione, con la distinzione di sillabe acute e circonflesse (intonazione ascendente e discendente), i latini avrebbero meccanicamente applicato alla loro lingua i principi dell’accentazione greca (soprattutto in Quintiliano questo fatto appare in modo molto chiaro), finendo per confondersi e per confonderci le idee. La stessa parola accentus (da ad + cantus), col suo riferimento alla melodia, non è altro che la resa letterale in latino del termine greco prosodía, che sottolinea appunto la stretta affinità esistente tra parlato e musica nel continuo elevarsi ed abbassarsi della voce.
Fermo restando che l’approdo a una soluzione del problema è per ora impossibile, un’ipotesi plausibile, sostenuta da alcuni studiosi (anche italiani), è che esistessero diverse modalità di accentazione nella Roma dell’età cesariana. È possibile che nella pronunzia corrente (sermo vulgaris) l’accento fosse espiratorio, mentre negli ambienti culturalmente più elevati, col dilagare della moda greca, si affettava una pronunzia modellata sulle intonazioni del greco. L’unica cosa certa è l’impossibilità di arrivare a una soluzione soddisfacente della questione.
Limiti e potenzialità didattiche della restituta
Delineate così le principali caratteristiche della restituta, si può procedere a un tentativo di giudizio sulla sua utilizzabilità didattica, anche in confronto con la pronunzia tradizionale. Ci sembra che vari aspetti debbano essere messi in rilievo.
1. Innanzitutto una pratica corretta della restituta comporta un impegno tutt’altro che indifferente e approda sempre e comunque a risultati parziali, lontani dagli intendimenti a cui si mira. Pronunziare il latino secondo la restituta significa infatti mettere in rilievo tutte le vocali lunghe e le brevi. In caso contrario, si ha semplicemente una pronunzia italiana con consonanti velari, u consonantiche e poco più, una risciacquatura della pronunzia nazionale che ha scarso significato. Valuti dunque l’insegnante se, nella scarsità di tempo che ha a disposizione, valga la pena impegnarsi alla corretta resa della quantità, alla sottolineatura che la prima i di infelix e insanus è lunga e quella di incertus e intentus è breve. Il risultato a cui si perviene anche dopo questo sforzo defatigante (e a nostro parere superfluo) è comunque sempre approssimativo, perché la realizzazione dei fonemi può essere ricostruita con discreta sicurezza, ma quella dei tratti prosodici no: come abbiamo già visto, non siamo in grado di dire quale tipo di accento avesse il latino dell’età classica.
2. Se si confrontano fra loro pronunzia tradizionale e restituta, si ha da una parte la continuazione di una prassi che si rifà alla tradizione scolastica tardoantica, dall’altra una ricostruzione moderna scientificamente corretta, ma pur sempre astratta e artificiosa. Non si dimentichi che la pronunzia del latino in Italia si pone in modo totalmente diverso rispetto alle altre nazioni europee: la pronunzia italiana è al termine di una storia che affonda le sue radici nel mondo tardoantico (la nostra pronunzia potrebbe corrispondere all’incirca alla pronunzia colta dell’epoca di Boezio, tanto per avere un punto riferimento), mentre quella degli altri paesi europei (Caesar pronunziato Sesàr dai francesi, Zésar dai tedeschi, Sisa dagli inglesi) è priva di senso, perché grosso modo applica ai classici le norme e le consuetudini della pronunzia moderna.
3. Se l’intendimento è quello di avvicinarsi il più possibile, nella lettura dei testi, alla situazione antica, rifiutando di leggere Cicerone e Virgilio in una maniera che avrebbe ripugnato alle loro orecchie, si parte da una posizione di principio corretta, ma non tale da risolvere il problema, perché si finirebbe per leggere Cicerone e Virgilio in una maniera un po’ più vicina a quella da loro usata, ma si cadrebbe di nuovo nell’anacronismo quando si leggessero testi delle epoche precedenti o seguenti. In Tacito, ad esempio, au era letto o, non più au. La parola mulierem era letta mùlierem da Plauto, mulìerem da Cesare, muljèrem nell’età tarda (da cui it. mogliera e spagnolo mujer). Si dovrebbe, a questo punto, leggere ogni autore secondo la pronunzia del suo tempo: ma questo, come ognuno capisce, è inattuabile. Dunque la scelta della restituta non può vantare una sia pure astratta superiorità di rigore metodologico o scientifico: la restituta non può essere considerata la “vera” pronunzia del latino, perché si tratta di una modalità di esecuzione che ha limiti cronologici e sociolinguistici ben definiti e sarebbe un abbaglio pensare di poterla estendere a tutta la Latinità.
4. Infine, c’è un’ultima considerazione che vorremmo sottolineare. Finora abbiamo parlato di pronunzia nazionale italiana: dovremmo, più correttamente, parlare di pronunzia ecclesiastica, perché la nostra pronunzia tradizionale corrisponde alla pronunzia dell’uso ecclesiastico, esplicitamente raccomandata da Pio X (a prezzo di durissime polemiche e contestazioni, soprattutto in Francia) in una lettera pastorale del 1912. Ciò significa che la pronunzia tradizionale ha una diffusione ben superiore ai nostri confini, anzi ha un carattere di universalità, essendo utilizzata non solamente nelle celebrazioni cattoliche finlandesi o neozelandesi, ma anche in tutto quel gigantesco repertorio di opere vocali e artistiche che fanno capo alla tradizione cristiana. Nessuno si sognerebbe di cantare il Magnificat di Bach con la pronunzia restituta!
Conclusioni
In sostanza. Ci sembra giusto e corretto che gli alunni sappiano che il nostro modo di pronunziare il latino non corrisponde a quello usato da Cesare ed è giusto che l’insegnante faccia presente le principali differenze tra le due modalità, magari in qualche caso dando un saggio di lettura dei testi secondo pronunzie diverse. Ci sembra giusto ribadire la sostanziale impossibilità di riprodurre in modo adeguato la pronunzia che si usava nel Foro all’epoca di Cicerone. Abbiamo messo in rilievo il costo, in termini di impegno didattico e di utilizzazione del tempo a disposizione, che avrebbe un tentativo di realizzare la restituta in modo coerente. Abbiamo richiamato le ragioni di carattere storico (e ideale) che fanno propendere per la pronunzia tradizionale. Fermo restando che la scelta finale è affidata alla sensibilità del docente, vorremmo concludere con un’osservazione che a noi sembra comunque prioritaria. Studiare il latino oggi ha tra le sue motivazioni fondamentali quella di una ripresa di coscienza della nostra tradizione culturale e della nostra identità, fondata sull’incontro tra cultura antica e Cristianesimo (come ci è stato ribadito più volte, in questi ultimi mesi, anche dalla voce autorevole di Benedetto XVI). Si tratta quindi di motivazioni saldamente e profondamente culturali. In questa prospettiva la conoscenza della lingua è strumento indispensabile per perseguire questa finalità in modo non superficiale e non dilettantesco. Va da sé che si deve trovare il giusto equilibrio tra acquisizione delle strutture linguistiche e riflessione sulla cultura e sulla civiltà. Non ci pare (ma questa è una nostra convinzione personale) che una sproporzionata insistenza sugli aspetti esteriori aiuti in questa direzione né il docente né il discente.