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UN’ANTIGONE FRANCESE DEL SEICENTO: JEAN DE ROTROU

by Mariapina Dragonetti

di Moreno Morani

da Zetesis, 2006-1


Premessa

Nell’Antigone di Jean de Rotrou (1639) la parte corrispondente all’Antigone di Sofocle inizia a metà del terzo atto. Il contenuto drammatico della tragedia di Rotrou ha dunque dimensioni circa doppie rispetto al modello greco. L’accrescimento molto ampio della materia trattata porta con sé, come inevitabile conseguenza, una sostanziale diminuzione d’importanza della problematica su cui è incentrata la tragedia di Sofocle, e nonostante l’identità del titolo la stessa figura della protagonista viene a ricoprire un ruolo meno centrale e determinante di quello che aveva nella tragedia greca. Inoltre per l’ampiezza e la complessità del materiale rappresentato il dramma risulta nel complesso dispersivo e ha, in alcuni casi, una mancanza di chiarezza che sicuramente disturba il lettore e l’ascoltatore.

1. Rotrou.

Jean de Rotrou è uno dei più interessanti drammaturghi francesi del XVII secolo. Nato a Dreux nel 1609, si recò a Parigi per studiare diritto. Aveva meno di venti anni quando portò in scena il suo primo lavoro, L’ipocondriaco (pubblicato nel 1632). A Parigi si legò a personaggi importanti e autorevoli, che lo tennero sotto la loro protezione, come il conte di Soissons e il conte di Belin, e persino il cardinale Richelieu. Conobbe altri grandi poeti tragici dell’epoca, forse lo stesso Corneille: alcuni particolari dei loro drammi fanno pensare a una possibile influenza reciproca, ma l’esatta vicenda dei rapporti tra i due poeti non è chiara. Rotrou tornò poi nel proprio paese natale a esercitare la funzione di magistrato (luogotenente civile e criminale), e qui morì nel 1650 durante un’epidemia. Nonostante la brevità della sua esistenza terrena, Rotrou fu autore prolifico e molto apprezzato dai contemporanei: scrisse una quarantina di opere drammatiche, oltre a raccolte di poesie comprendenti elegie, odi e componimenti religiosi. Si trovò a operare in una fase in cui il teatro francese era alla ricerca di una sua identità: il prestigio di autori e di opere straniere, spagnole o italiane soprattutto, si faceva sentire e aveva portato alla nascita di nuovi generi teatrali che ottenevano grande successo e suscitavano interesse anche tra i migliori autori francesi di teatro: il dramma pastorale di origine italiana e la tragicommedia di origine spagnola. Era vivo il dibattito tra chi sosteneva la superiorità di questi nuovi generi e chi invece affermava il primato della tragedia classica, legata alle regole aristoteliche dell’unità d’azione, di luogo e di tempo. La vivacità del dibattito e la varietà di generi che si stava affermando ebbero un effetto benefico sull’opera di Rotrou, che scrisse sia tragicommedie (nelle quali il Rotrou assunse come modelli anche opere del teatro latino: ad esempio scrisse una ripresa dei Menecmi di Plauto e, col titolo I due Sosia, un rifacimento dell’Anfitrione, sempre di Plauto) sia tragedie di argomento classico o storico, anche se non sempre rigidamente inquadrate nello schema delle tre unità. Tra le sue opere più note ricordiamo le tragicommedie DianaAgesilao di ColcoLaura perseguitata, e le tragedie Ifigenia in AulideIl vero San Genesio (dedicata alla figura di San Genesio patrono degli attori e ispirata a un dramma di argomento simile di Lope de Vega: contiene un esempio rimasto celebre di metateatro, con una rappresentazione teatrale inserita nella rappresentazione principale), Venceslao (che si ispira al dramma No hay ser padre siendo rey di Francisco de Rojas), Ercole morente (ispirato a Seneca), Cosroe (un dramma di argomento orientale che sembra essere l’unica opera per la quale Rotrou non abbia tratto ispirazione da altri autori).

2. L’Antigone

L’Antigone di Rotrou è un ampio dramma di 1791 versi suddiviso, secondo la prassi dell’epoca, in cinque atti. I personaggi della tragedia sono i seguenti: Giocasta; Eteocle; Polinice; Antigone; Ismene; Adrasto; Argia; Menete (presentato nell’elenco dei personaggi come “gentiluomo di Argia”); Creonte; Emone (a cui l’elenco dà la qualifica di “servitore d’Antigone”); un Capo dei Greci; Efito e Cleodamante (questi due indicati come “signori di Tebe”: in realtà nella tragedia hanno la funzione di consiglieri di Creonte, una volta che questi ha ottenuto il potere regale); un paggio; il seguito di Creonte. La scena è collocata a Tebe, e la tragedia non segue la regola dell’unità di luogo, svolgendosi ora nel palazzo reale, ora nelle tende dell’esercito, ora nei pressi delle mura della città.

La tragedia si apre in uno scenario fosco e in uno dei momenti più drammatici della storia di Tebe. La città sta per subire l’assalto di un esercito formato da una coalizione di città greche: è stato un tebano, Polinice, il fratello del re Eteocle, a raccogliere e a portare contro la città questa armata, per rivendicare il proprio diritto a regnare su Tebe: secondo un patto sancito col fratello Eteocle, i due fratelli avrebbero dovuto regnare ad anni alterni a rotazione: ma Eteocle non ha rispettato il patto, costringendo il fratello a un esilio in terra straniera.

E’ notte. Il primo atto (vv. 1-326) inizia con un dialogo tra Giocasta e Ismene, nel quale Giocasta lamenta che la situazione sia ormai giunta allo scontro aperto e soprattutto che si sia giunti alla decisione della guerra senza avere ascoltato il suo parere: si è approfittato del suo sonno per prendere una decisione che sovverte le esigenze stesse della natura e tocca ora alla natura confonderli. Mentre Giocasta si dice pronta a frapporsi tra i due contendenti, entra Antigone e riferisce che la battaglia è cessata per un momento e che il re sta rientrando; e mentre attendono che si presenti a loro, Antigone racconta un episodio tragico di cui lei stessa è stata testimone. Stava assistendo allo scontro delle due armate da una torre, quando ha visto Meneceo (si saprà solo in séguito che si tratta di un figlio di Creonte, fratello di Giocasta) gettarsi, con decisione improvvisa, dall’alto delle mura, gridando a gran voce che la sua morte avrebbe portato a Tebe un futuro di pace e prosperità. Appena Antigone ha terminato il suo racconto, entrano Eteocle, Creonte ed Emone: il primo, lamentando che la battaglia sia giunta a una situazione di stallo, imputa a Polinice la colpa di quanto sta accadendo: Eteocle avrebbe volentieri ceduto il regno al fratello, ma è stato trattenuto sul trono dalla volontà e dal consenso popolare, che ama l’attuale sovrano e temeva invece che Polinice instaurasse un regime crudele e dispotico; ora il sacrificio di Meneceo consente di nutrire speranze che le disgrazie di Tebe stiano per finire, perché un oracolo divino ha promesso pace e benessere su Tebe quando sarebbe morto l’ultimo discendente della stirpe dei seminati, e con la morte di Meneceo, che era il più giovane rampollo di questa discendenza, l’oracolo si è compiuto. Irritato e pieno di rancore, Creonte risponde a Eteocle che questa morte giova solamente a lui: le sue sono parole di accusa che colpiscono contemporaneamente la famiglia di Edipo e gli dèi, i quali hanno punito con la morte di Meneceo una stirpe che non ha commesso nulla di male nei loro confronti e hanno concesso il potere regale a una stirpe che si è macchiata di gravissimi delitti. Le parole di Creonte attirano un’aspra disapprovazione da parte sia di Giocasta sia di Eteocle, che, pur comprendendo l’esasperazione di Creonte per la recente perdita del figlio, gli ricorda come lo stato di guerra non sospende i doveri di giustizia e come un simile oltraggio nei confronti del re non sia tollerabile. Escono di scena tutti, salvo Antigone ed Emone, che biasimano la violenza verbale di Creonte, ma riflettono sulla triste vicenda delle loro famiglie e sul fosco futuro che le parole di Creonte lasciano presagire. Emone dichiara in modo appassionato il proprio amore per Antigone e afferma che nessuna ragione di Stato o nessun divieto del padre potrebbe mai allontanarlo da lei, ricevendo in cambio da Antigone una risposta piuttosto tiepida, in cui la donna afferma che non è il momento di affrontare questi temi, di fronte alla tempesta che sta per abbattersi sulla loro casa, e l’unica consolazione nella circostanza presente è il fatto che Polinice sia uscito indenne dalla battaglia. Emone, che ha assistito allo scontro, descrive la temerarietà di Polinice, che combatte incurante dei pericoli, sostenuto più da un ardore rabbioso che dal coraggio: lui stesso, Emone, ha dovuto intervenire per parare i colpi dei tebani ed evitare che Antigone si trovasse privata di un fratello, a cui era legata da un affetto speciale e profondo fin dall’infanzia. Nella seconda parte del primo atto la scena si trasferisce nella tenda degli argivi. Polinice espone la decisione che è maturata in lui: affrontare in un duello Eteocle, così da evitare la strage di eroi che si sta compiendo davanti le mura di Tebe; questa decisione di Polinice trova la disapprovazione sia del suocero Adrasto sia della moglie Argia che lo pregano, in nome dell’affetto che li lega a lui, di riconsiderare questa sua scelta; Adrasto si dichiara persino disposto a cedergli il suo trono, pur di fargli evitare questo pericolo estremo a cui si sta esponendo, e Argia lo esorta ad ascoltare la voce della natura e a ricordarsi dell’amore che lo lega a lei. Ma Polinice, benché riservi parole affettuose ad Adrasto e ad Argia (a cui dichiara il suo affetto e dalla quale si congeda con un tenero discorso di addio) è irremovibile: non è l’ambizione di avere un regno a muoverlo, ma il desiderio di vendicare l’oltraggio di cui è stato oggetto e di punire il traditore che lo ha costretto all’esilio e che ora gode un regno usurpato.All’inizio del secondo atto (vv. 327-658) Polinice dai piedi delle mura urla la sua sfida a Eteocle. Dall’alto delle mura gli risponde Antigone, che, in nome dell’affetto speciale che li ha sempre legati e delle esigenze della legge naturale che impone ai fratelli il dovere di amarsi, supplica Polinice di deporre le armi, senza portare la situazione fino alle estreme conseguenze. Polinice ricambia Antigone con parole affettuose, ma ribadisce che il suo combattimento è per il diritto e per l’onore, mentre il combattimento di Eteocle è per il tradimento. Antigone lascia trapelare la speranza che nel cuore di Eteocle alberghi ancora qualche sentimento di umanità, ed esprime la convinzione che, sensibile al pianto della madre, sarebbe sul punto di lasciare cadere la spada che arma la sua mano, ma Polinice risponde che sarebbe disposto a farsi uccidere da lei senza opporre resistenza, piuttosto che deporre le armi e i sentimenti di rivalsa. Alle parole di Polinice risponde dall’alto delle mura Eteocle, che compare insieme con Creonte e accetta la sfida che il fratello gli propone. I toni si fanno sempre più esasperati. Mentre Antigone esce di scena con parole di disperazione, entrano Emone e Giocasta, accolta da Creonte con un moto irritato e brusco che la dice lunga sui suoi reali sentimenti (“Che cosa vuole, fuori tempo, questa donna importuna?”). Con una commossa e vibrata allocuzione Giocasta supplica i due figli, entrambi ugualmente amati, di non aggiungere il fratricidio alla catena di sventure che già pesa sulla loro stirpe infelice e li esorta ad accogliere il grido della madre e della natura. Ma le sue parole non valgono a dissuadere i due contendenti, e addirittura Polinice mette in dubbio la sua buona fede e insinua che la sua preghiera sia un tranello: le esigenze della natura non esistono ormai più, perché “ciascuno fa le leggi secondo i propri interessi” (v. 498). Giocasta cerca nuovi argomenti per scongiurare il duello fratricida, ma il contrasto tra i due fratelli si fa sempre più incalzante: essi rivendicano ciascuno le proprie ragioni in tono irritato o beffardo, ignorando di fatto la presenza della madre, che sempre più viene tagliata fuori nel protrarsi dello scontro. L’impossibilità di ottenere una pacificazione tra i due contendenti è evidente, e Giocasta, visto palesemente vanificato il suo tentativo, esce di scena con parole di oscura minaccia, disconoscendo di fatto i suoi figli. Creonte spinge Eteocle a concludere definitivamente la lotta, ed Eteocle gli ribatte che la sua esortazione è dettata solo dal suo interesse personale, perché alla morte di Eteocle lo scettro passerebbe nelle mani di Creonte. L’atto si conclude con le rassegnata esclamazione di Emone: “O giornata ignominiosa per la Natura!”. Il terzo atto (vv. 659-1018) inizia con un monologo di Antigone sull’incostanza della fortuna, che ama colpire le case dei regnanti ricchi di potere e di gloria, mentre si mostra più clemente con le case dei pastori. Mentre già una percepibile atmosfera di dolore avvolge il palazzo, giunge Emone ad annunziare l’esito luttuoso del duello: entrambi i fratelli sono morti in uno scontro fratricida che ha portato la Natura a combattere con sé stessa: è la Natura che esce sconfitta dal duello più ancora dei due fratelli morti. I due fratelli hanno mostrato in ogni modo, nella voce, negli occhi, nel modo di agitare la spada, quanto fosse irrevocabile in entrambi il furore, l’animosità, il desiderio di vendetta. Il colpo decisivo è inferto da Polinice, che colpisce a morte il fratello facendolo cadere a terra. Polinice leva un grido di gioia e si avvicina per togliergli la spada, quando Eteocle dà fondo a tutte le sue residue energie per infliggergli un colpo mortale. Sorpreso, Polinice muore urlando la sua volontà di continuare nell’oltretomba lo scontro che la morte ha solamente interrotto, non terminato. Alle parole di Emone Antigone replica con un’esclamazione: “Come la vostra morte, madre, è un bene che io vi invidio! e come mi sarebbe dolce avervi seguita!” (vv. 771-2). Apprendiamo così che Giocasta si è tolta la vita. Nello stesso momento, mentre Emone esce momentaneamente di scena, sopraggiunge Ismene ad annunziare il bando emesso da Creonte, che si è appena insediato, per diritto di sangue, sul trono di Tebe: proibisce d’inumare il corpo di Polinice, dichiarato nemico dello Stato. A Emone, prontamente rientrato sulla scena, Antigone chiede un momento di solitudine per dare sfogo al proprio dolore. La scena successiva è occupata dal dialogo tra Antigone e Ismene. La prima lamenta la miserabile situazione sua e della stirpe, suscitando il consenso della sorella, che descrive le solenni onoranze funebri che si stanno preparando per Eteocle, mentre Polinice è destinato a trovare sepoltura nel ventre dei lupi. Ma Antigone percepisce il bando di Creonte come rivolto innanzitutto a loro: il nuovo tiranno vuole sradicare la stirpe di Edipo e sterminarne i frutti; Antigone fa partecipe la sorella del suo disegno di opporsi al disegno di Creonte e di procedere alla sepoltura di Polinice, e rivela di avere deliberatamente allontanato Emone, sulla cui fedeltà e sul cui amore non ha dubbi, per avere il modo di mettere a punto il suo progetto. Ismene è sgomenta di fronte alla decisione della sorella, e manifesta il suo sentimento di inferiorità di portare a termine un disegno così ardito, loro due sole, donne e deboli. Il dialogo si conclude con espressioni sprezzanti di Antigone: di fronte alla promessa di Ismene, che manterrà comunque il più assoluto silenzio sul proposito di Antigone, la sorella ribatte che non il suo disegno ispirato dalla pietà, ma la debolezza di Ismene deve essere passata sotto silenzio. Alla fine, Ismene congeda la sorella con parole di sinistro presagio: nuovi dolori e nuovi lutti si stanno addensando sulla stirpe di Edipo. Nella seconda parte dell’atto la scena si sposta ai piedi delle mura, nel luogo dove si è svolto il duello tra i due fratelli. Entra Argia, accompagnata dall’anziano e fidato Menete, con l’intenzione di procedere alla sepoltura di Polinice, nonostante i consigli di moderazione proposti da Menete, che cerca di dissuadere Argia dall’impresa. Argia si è sottratta alle truppe argive, che, abbandonato l’assedio di Tebe dopo la conclusione del duello, non si sono opposte a questo atto di ingiustizia. La ricerca del corpo di Polinice è improvvisamente interrotta dall’avvicinarsi di un’ombra. Si tratta di Antigone, che affronta fieramente i due personaggi al momento sconosciuti e rivendica il suo pieno diritto a dare le onoranze funebri al fratello. Le parole vigorose e ferme con cui Argia replica permettono ad Antigone di riconoscere nella straniera la vedova di Polinice: si instaura immediatamente un legame di affetto tra le due donne, e Antigone si rattrista per non essere riuscita a convincere Polinice a deporre le armi. L’atto si conclude col richiamo di Menete, che invita le due donne a sospendere per il momento le rievocazioni e il comune compianto per portare a termine il difficile disegno che hanno intrapreso.

Nel quarto atto (vv. 1019-1448) Creonte, salutata la nuova situazione di pace che finalmente si è instaurata su Tebe e attribuito il merito di questo nuovo stato al sacrificio di Meneceo, espone le ragioni del provvedimento che ha dovuto prendere. Le sue parole vengono commentate dai suoi due consiglieri, Cleodamante ed Efito: espressioni di consenso da parte del primo, che esorta Creonte a seguire una giustizia rigorosa, invito a un atteggiamento di moderazione e di clemenza da parte del secondo, che invita Creonte a provvedimenti di pacificazione, mettendo d’accordo tra loro le esigenze della giustizia e quelle della natura. Creonte risponde con parole dure all’invito di Efito, in cui vede un incentivo alla ribellione. Nel corso del dialogo entra una guardia ad annunziare che l’editto di Creonte è stato violato dalla sorella e dalla vedova di Polinice. Queste entrano sulla scena accompagnate anche da Menete, ma è solo ad Antigone che Creonte si rivolge, rinfacciandole la condotta colpevole e il comportamento arrogante. Alla risposta di Antigone, che afferma la bontà del suo gesto, si sovrappongono le voci di Argia e Menete, ciascuna tesa a far ricadere unicamente su di sé l’intera colpa. Mentre Creonte trova nelle loro parole soltanto indizi di follia, Antigone riafferma nobilmente le ragioni del suo gesto e sostiene con atteggiamento saldo il contraddittorio con Creonte, sempre più irritato: gli dèi sono al di sopra dei re e tutti i loro decreti sono giusti e santi; la legge di seppellire i morti è nata con la natura stessa: la prima legge emanata da Creonte distrugge la prima delle leggi, e dunque in un caso del genere l’obbedienza è delitto e la ribellione giustizia. Le reazioni di Efito e di Cleodamante ribadiscono le loro diverse inclinazioni politiche, mentre Creonte rifiuta di farsi condizionare da una donna, per di più criminale: condannandola, sarà ben lieto di soddisfare il suo odio verso la stirpe di Edipo con un atto di giustizia. Argia invita Creonte a portare a termine in fretta il suo proposito e rivendica di avere fatto il proprio dovere di sposa, di fronte alla barbarie di una legge che nega sei piedi di terra a un uomo che è stato cittadino e principe della città. Il dibattito prosegue in toni sempre più aspri, ma è su Antigone che si appunta soprattutto l’ira di Creonte, fino a che entra in scena Ismene, che si accusa della violazione del bando, affermando di essere stata lei a convincere la sorella a mettere in atto un simile progetto. E’ Antigone la prima a non accettare questa conclamata confessione di Ismene, nonostante le insistenze e le suppliche di questa. Antigone reclama l’esistenza di un rapporto speciale tra lei e Polinice (“Io sola ho amato mio fratello, lui non chiama che me” v. 1275) e non vuole che Ismene partecipi a un progetto che considera di sua completa proprietà: l’ostinazione di Antigone sembra dovuta, a quanto Ismene stessa le rimprovera, a un attaccamento persino perverso alla propria sorte sventurata (“Siete a tal punto posseduta dalla vostra triste sorte, che vi dispiace che essa sia comune anche a me”, vv. 1273-74). Quando ormai Creonte riconosce in entrambe una radice di orgoglio e di pazzia, Ismene solleva il problema matrimoniale: Antigone è promessa sposa di Emone, mandarla a morte significherebbe anche rompere questo legame. Il richiamo non smuove Creonte (Is. “Vorreste dunque rovinare un amore così profondo?”; Cr. “Profondo o no, la sposerà morta”, vv. 1301-02), che vede nelle nozze di Emone con una donna colpevole e odiosa solo un motivo di rovina per il figlio. La decisione finale sarà assunta dal Consiglio della corona: ma nel frattempo le due responsabili, Antigone e Argia, saranno incarcerate, e Argia sarà trattata con maggiore riguardo, perché meno soggetta, in quanto straniera, al suo bando. Mentre le due donne sono condotte via, Efito timidamente ripete al re alcuni degli argomenti di Antigone e lo invita a una decisione benevola, ottenendo un vigoroso diniego, sempre motivato dal fatto che un atto di indulgenza distruggerebbe il potere regale. La parte finale dell’atto è occupata da un ampio dialogo tra Creonte ed Emone, che sopraggiunge sulla scena. Le prime schermaglie sono guardinghe: Emone riconosce i suoi doveri di sottomissione nei confronti dell’autorità paterna e Creonte ricorda ad Emone che neppure l’amore per una donna può accecare una persona fino a impedirgli di individuare chi è nemico e attenta il regno. Ma subito il corso del dibattito assume una diversa piega: Antigone non ha voluto mettersi contro il re, ma seguire la legge degli dèi, che sono superiori ai re; Emone ritiene suo dovere dire al padre una verità che è ampiamente condivisa dai suoi sudditi e dal favore popolare, ben sapendo che spesso la verità non trova modo di introdursi nei palazzi dei re, dove i cortigiani hanno mille motivi per tenerla fuori; cambiare una decisione può essere manifestazione di saggezza, e non di debolezza. Le parole di Emone trovano l’approvazione di Efito, ma Creonte le considera ridicola follia: il fatto che il popolo con condivida il suo bando è irrilevante, perché “la provincia e i suoi abitanti sono schiavi del re” (v. 1415) e l’obiezione che anche i re sono schiavi delle leggi non intacca Creonte, che dopo avere accusato Emone di essersi messo a servizio di una donna e di avere tradito il padre, gli annunzia che Antigone sarà immediatamente giustiziata e sgozzata davanti ai suoi occhi. Emone lascia la scena con parole di oscura minaccia (“Lei non morirà senza che altri la segua”, v. 1430) a cui Creonte non presta attenzione.

Il quinto atto (vv. 1449-1791) si apre con un monologo di Emone, che considera il carattere barbaro e dispotico del nuovo regno, mentre gli ritorna più volte in mente, ripetuto come un ritornello, l’ordine paterno (“La si sgozzi davanti ai miei occhi”). Senza eccessiva fiducia, Emona spera che le preghiere e le insistenze di Efito possano smuovere l’animo paterno, ma questa speranza, come gli annunzia lo stesso Efito, si rivela vana: Creonte, più duro della più dura delle rocce, ha deciso di rinchiuder Antigone viva in una caverna, in modo che la morte sopraggiunga per fame. Emone invita Efito a inoltrare ancora una nuova supplica a Creonte: ma si tratta di uno stratagemma per liberarsi della presenza di Efito; Emone sta progettando di salvare in qualche modo Antigone: non potendo indirizzare la sua ira verso lo stesso Creonte, perché i doveri filiali gli impediscono una simile azione, spera almeno di difendere Antigone dai colpi dell’ira di Creonte, anche se ciò gli costasse la vita. La scena successiva presenta un serrato dialogo tra Efito e Creonte: Efito ripete a Creonte tutte le ragioni di Emone e lo supplica di considerare che ha agito da innamorato, ma Creonte rimane inflessibile nella sua posizione di rifiuto verso qualunque cedimento che minerebbe il suo potere. Al termine entra sulla scena l’anziano vate Tiresia, che riferisce minutamente a Creonte dei sinistri presagi di cui è stato testimone durante tutta la giornata: il canto di cattivo augurio degli uccelli, la loro turbolenza, la difficoltà nell’eseguire i sacrifici, il presentarsi di una vittima sacrificale senza fegato sono tutti segni mandati dagli dèi per esprimere il loro sdegno nei confronti di chi ha sovvertito le leggi della natura proibendo l’inumazione di un corpo. Creonte prima reagisce con parole di disprezzo e adombra la possibilità che Tiresia si sia fatto corrompere, come sono soliti fare gli indovini: ma, di fronte alla fermezza con cui Tiresia rinnova il suo presagio e preannunzia nuove sventure per Tebe e per il suo sovrano, Creonte rimane interdetto. Per quanto disdicevole possa essere per il suo orgoglio cedere di fronte alle profezie di Tiresia, la prudenza gli consiglia di non mettere alla prova la sua arte profetica, spronato in ciò anche dai suoi consiglieri (questa volta anche Cleodamante), che anzi insistono perché si faccia presto, in quanto “talvolta il Cielo colpisce nel momento stesso in cui minaccia” (v. 1678). Ma ormai è troppo tardi: giunge una guardia ad annunziare che Emone è riuscito a farsi un passaggio nella roccia dove era detenuta Antigone: questa è ormai morta, ma il principe giace sul suo corpo e pronunzia parole di deprecazione nei confronti del regno e non lascia che alcuno si avvicini. Creonte esce di scena di corsa per prevenire un gesto di disperazione del figlio: “O miserabile re, da quale triste successo è seguita la mia rabbia: corriamo, salviamo mio figlio, oppure la mia vita è finita” (vv. 1692-93).

La seconda parte dell’atto si svolge nella caverna dove è stata internata Antigone e dove si trovano Emone e Ismene. Emone, quasi folle, piange sul cadavere di Antigone, nel timore che lei sia morta riconoscendo in lui il figlio del suo carnefice e che il suo amore per lui si sia spento, e che si sia creata tra loro un’inimicizia destinata a sopravvivere eternamente anche dopo la morte, così da rendere vano anche il suo proposito darsi la morte per seguirla. Ismene lo rassicura descrivendo gli ultimi momenti di Antigone: si è recata nella caverna celando in seno un pugnale, “per restare, grazie ad esso, padrona della propria vita” (v. 1714) in caso di condanna capitale, e a nulla sono valse le preghiere e i tentativi di Ismene, che non è riuscita né a convincerla né a deviare il colpo. Il sangue che ha versato l’ha resa più bella, ed è morta pronunziando il nome di Emone. Emone, che morirebbe cento volte pur di ridare un respiro di vita a quel corpo ormai inerte, ora non può sperare che Morte renda al figlio quel che ha avuto dal padre: non rimane che procedere nel suo proposito, alla fine di questa giornata in cui “la Natura si distrugge da sé: i parenti più prossimi sono i peggiori nemici, il fratello odia il fratello e il padre il figlio e lo zio con piacere si tuffa nel sangue della sua nipote” (vv. 1742-45). La comparsa di Creonte, che con angoscia rileva la disperazione a cui il figlio è stato condotto da un amore funesto, fa precipitare gli eventi. Emone rinfaccia al padre la sua crudeltà e afferma di restituire a lui il sangue che lui gli aveva dato facendolo nascere: “questo corpo che era vostro resta in vostro potere e sta per ripagarvi, attraverso la sua morte, la sua nascita” (vv. 1760-61). Creonte lo invita a dare compimento al suo gesto colpendo anche lui, ma Emone esclama che la sua rabbia ha ancora un limite di rispetto che gli impedisce di dare la morte al padre; dopo avergli preannunciato che presto il cielo farà sentire su di lui tutta la sua onnipotenza e lo punirà per i mali di cui è stato artefice, in quanto l’antica profezia si avvererà con lui, non con Meneceo, perché soltanto con Creonte l’antica stirpe dei seminati si sarebbe estinta, si getta sul cadavere di Antigone per compiere morendo quelle nozze che non si sono potute concludere in vita. Creonte cade privo di sensi augurandosi una morte rapida. Mentre Efito e Cleodamante esprimono il loro disorientamento di fronte a questi tragici eventi, Ismene, fedele al suo personaggio, si rimprovera la sua incapacità di darsi una morte immediata: “Misera, non posso dunque fare un ultimo sforzo? Morirò mille volte per la paura di una morte?” (vv. 1790-91).

3. Le fonti

Nell’arco di tempo che intercorre tra il XVI e il XVII secolo la popolarità dei personaggi e delle vicende del ciclo tebano è testimoniata dal numero considerevole di drammi che si rifanno a questa tematica. Antigone compare come personaggio in diverse tragedie, che vanno, tanto per citare alcuni tra i drammi più noti, dall’Antigone ou la piété di Garnier (1580), alla Thébaïde di Racine (1664), alla nuova Antigone di Boyer (1687). A questi vanno aggiunte la traduzione francese dall’omonimo dramma sofocleo (traduzione secondo i canoni dell’epoca, cioè libera parafrasi in altra lingua) di Calvy de la Fontaine, che ebbe scarsa circolazione tra i contemporanei (1542), la traduzione di Jean-Antoine de la Baïf (1573) e soprattutto la traduzione del letterato e poeta italiano Luigi Alamanni (1495-1556), che ebbe notevole fortuna sia in Italia sia in Francia.

Fonte primaria e modello dell’Antigone di Rotrou, nonostante le pur numerose diversità, è il dramma Antigone ou la piété di Robert Garnier (1545-ca. 1595), un autore importante nel quadro della formazione del teatro tragico francese: le sue opere si ispirano soprattutto al teatro di Seneca, anche se non mancano lavori di diversa ispirazione, tra cui una tragedia di argomento biblico (Les juïves) e un dramma ispirato all’Ariosto (Bradamante). Il teatro antico (sia greco sia latino) rimane un punto di riferimento imprescindibile per gli autori del XVI secolo che tentano di dare l’avvio a un teatro nazionale francese: in un’epoca in cui la linea di demarcazione tra versione, rielaborazione e opera originale è quando mai sottile e vaga, soprattutto Seneca ed Euripide sono i più amati e seguiti, e anche opere che si rifanno ad argomenti che nulla hanno a che fare con l’antichità classica risentono dei modelli antichi: caso emblematico è il Sacrifice d’Abraham di Théodore de Bèze (1550), che in realtà rappresenta una trasparente ripresa dell’Ifigenia in Aulide euripidea. I drammi di Garnier, che fu anche poeta lirico (la sua raccolta Plaintes amoureuses, del 1565, è oggi perduta), hanno un carattere spesso declamatorio: più che portare in scena delle trame e dei fatti, essi sono composti da lunghi dialoghi in cui i personaggi dibattono, con insistite considerazioni e con argomentazioni elaborate, i rispettivi punti di vista (è stato detto che la sua Antigone è più un processo che una tragedia); le varie scene sono poi inframmezzate con Cori. La presenza del Coro è frequente nella tragedia, e alcuni trattatisti del XVI secolo (p. es. Jacques Peletier du Mans nell’Art poétique, 1555) insistono sul fatto che la tragedia presume l’esistenza di un Coro che deve rappresentare il pensiero dell’autore, parlare giudiziosamente, mostrare reverenza nei confronti degli dèi, dare giudizi morali appropriati, e tutte queste cose deve farle “succintamente e fermamente”. Le tragedie di Garnier hanno tutte un coro (con la sola eccezione del Bradamante, che anche in questo presenta il suo carattere speciale, sostanziale prefigurazione della tragicommedia).

L’Antigone di Garnier è un dramma di notevole lunghezza (2741 versi), che ha in comune con l’omonima tragedia di Rotrou il fatto di presentarsi come la giustapposizione di due blocchi, la cui saldatura non sempre è convincente: in entrambe la parte corrispondente alla tragedia di Sofocle comincia a metà del terzo atto, e la prima sezione s’incentra sulla lotta fratricida di Eteocle e Polinice, ma la differenza di trattamento della materia è notevole. Innanzitutto sono diverse le fonti classiche assunte come punto di riferimento. Garnier si è rifatto fondamentalmente alle Fenicie di Seneca; e poiché questo dramma si interrompe nel momento che precede lo scontro decisivo tra i fratelli, Garnier ha fatto ricorso a Stazio per colmare la lacuna cronologica che si viene ad avere tra la fine delle Fenicie e l’inizio della tragedia sofoclea; nella seconda parte il dramma di Sofocle è ripreso in maniera discretamente puntuale. Il tentativo di saldare Seneca e Sofocle (per non parlare dell’ulteriore presenza di Stazio) risulta difficoltoso per più aspetti sia stilistici (la prima parte appare assai più statica della seconda) sia teatrali. Ad esempio l’intero primo atto di Garnier è occupato da un lungo dialogo tra Edipo ed Antigone, in cui la donna esorta il genitore a non togliersi la vita, e si dichiara pronta a seguirlo nell’esilio, con ampie considerazioni anche sul carattere involontario, e quindi incolpevole, dei suoi atti precedenti. Questa lunga scena iniziale, in cui Garnier ha seguito Seneca (che ha posto all’inizio della tragedia quella che nelle Fenicie di Euripide costituiva la scena finale, tale da lasciare volutamente in sospeso e privi di soluzione tanti aspetti del dramma), rimane senza esito nel séguito, in cui Edipo sparisce del tutto. La presenza del Coro permette a Garnier di seguire più da vicino nella seconda parte l’archetipo sofocleo, ma un confronto tra le due opere mostra come siano diversi gli intendimenti del poeta francese rispetto a Sofocle: se trascuriamo i primi tre atti (in cui il Coro, a somiglianza dello stasimo greco, si colloca tra la fine dell’atto e l’inizio del successivo, più un ulteriore passaggio corale a metà del secondo atto), nel IV atto abbiamo un intensificarsi della presenza di Cori, mentre il V atto, in cui l’azione procede rapidamente verso la catastrofe, ne è del tutto privo. I quattro cori del IV atto rappresentano nell’ordine una rielaborazione della parodo (vv. 1622-1705), del III stasimo (un inno alla giustizia e alla legge, vv. 2086-2157), del IV stasimo (scena di lamento, vv. 2230-2269) e del II stasimo (inno all’amore, vv. 2326-2415). Il coro che termina il I atto (vv. 403-467) è un inno a Dioniso il cui modello può ravvisarsi nel V stasimo sofocleo. Rimane così fuori dall’orizzonte complessivo della rielaborazione solamente il I stasimo: una scelta che difficilmente può essere attribuita a semplice scelte sceniche. Evidentemente il poeta francese non è riuscito a trovare la consonanza necessaria con l’ampio brano in cui il poeta greco riflette sulla grandezza dell’uomo, con profonde considerazioni che abbracciano insieme l’etica e la politica: Garnier ha preferito non tenere conto di questa parte, che non riteneva, evidentemente, di poter presentare ai suoi ascoltatori francesi.

Per tornare a Rotrou, nella prima parte della sua Antigone la fonte è soprattutto Stazio: il poeta francese preferisce l’enfasi del poeta latino al carattere severo e problematico delle Fenicie euripidee. Interi passaggi di Rotrou possono considerarsi parafrasi di versi tratti dalla Tebaide. Nella seconda parte invece la tragedia di Garnier è ben presente a Rotrou, tanto che molti versi di Rotrou trovano una rispondenza quasi letterale in Garnier. In genere in questi casi Rotrou tende ad accentuare l’enfasi drammatica rispetto a Garnier, che è generalmente più discorsivo e non disdegna qualche ridondanza (anche con sfoggio di erudizione), pur di esporre in ogni pur minimo dettaglio l’argomentazione dei personaggi, ma non di rado l’indulgenza all’enfasi e al tono declamatorio è poi riscattata in Rotrou da una maggiore concretezza e da una maggiore precisione nel dialogo. Basti questo esempio, tratto dalla scena in cui Antigone annunzia il suo proposito di inumare Polinice, di fronte ai tentennamenti e alle proteste della sorella (a. III, sc. 5):

Rotrou (vv. 891-896)                             

Ism.      Soyez secrète au moins, comme je vous promets,
            que pour moi ce dessein ne se saura jamais.
Ant.      Si rien est à cacher, cachez votre faiblesse,
            Je fais gloire pour moi, que ma vertu paraisse.
            Ism.      Comme dans les dangers vous vous précipitez.
            Ant.      Avec autant d’ardeur que vous les évitez.

Ism. – Siate celata almeno, così come io vi prometto che da parte mia non si saprà mai nulla di questo discegno. Ant. – Se non c’è niente da nascondere, nascondete la vostra debolezza: io mi procuro la gloria per me, che la mia virtù sia palese. Ism. – In quale modo vi precipitate nei pericoli! Ant. – Con altrettanto ardore con cui voi li evitate.

 Garnier (vv. 1598-1603)             

Ism.      Au moins gardez-vous de vous en deceler:
             Quant a moy, je n’en veux à personne parler.
Ant.      Parlez-en à chacun, je veux bien qu’on le sçache,
             Il ne faut que celuy qui ne fait mal, se cache.
Ism.      Que vous estes ardente à vous brasser du mal.
Ant.      Mal ou bien, il aura son honneur funeral.

Ism. – Almeno badate a rimanere nascosta: quanto a me, io non voglio parlare a nessuno. Ant. – Parlatene a tutti, io voglio che si sappia: chi non fa del male non ha motivo di nascondersi. Ism. – Come siete ardente ad abbracciare il male. Ant. – Male o bene, lui avrà il suo onore funebre.

Come si vede, più fiacco e verboso all’inizio Rotrou (che introduce inopportunamente anche il motivo della gloria), ma più nitido nel concludere il dialogo mettendo in rilievo la contrapposizione e il diverso carattere delle due donne, mentre in Garnier l’ultimo verso di Antigone è generico e privo di efficacia.

La mancanza di Cori costituisce la principale differenza tra i due. Nei dialoghi la problematica sollevata dal Coro è affidata ad altri personaggi. In particolare, Rotrou recupera molti degli interventi corali attraverso le figure di Cleodamante e di Efito, che compaiono solamente nella seconda metà della tragedia, dopo che Creonte ha assunto il potere: avendo suddiviso su due personaggi gli interventi originariamente di pertinenza del Coro, Rotrou può presentare due diversi punti di prospettiva nell’elaborazione della problematica, perché Cleodamante rappresenta le ragioni di una giustizia severa e priva di cedimenti, mentre Efito rappresenta le ragioni di una monarchia incline alla clemenza e ritiene che la comprensione e la pacificazione siano i mezzi di governo migliori. Per converso, in questi personaggi prevale la sola componente politica, cosicché i problemi di ordine etico e religioso che rappresentano la parte sostanziale del dialogo tra Antigone, Creonte e Coro nella tragedia di Sofocle vengono sostanzialmente ridotti, fino ad essere praticamente annullati. Inoltre Efito, in virtù della sua contrapposizione a Creonte, diviene un personaggio rilevante anche per lo svolgimento della vicenda, mentre in sostanza Cleodamante si appiattisce sulle conclusioni di Creonte, anche se le sue argomentazioni non muovono dal fondo di odio atavico nei confronti della dinastia dei Labdacidi (manifestato fin dall’inizio della tragedia) che ha Creonte e sono sostenute da considerazioni di natura politica, che non si nutre soltanto di una dispotica volontà di potere, come sono invece i gesti e gli atti di Creonte. Uno dei Cori di Garnier (quello che conclude il secondo atto) è in certo modo “recuperato”, sia pure in una forma abbreviata, dal passaggio lirico che apre il terzo atto della tragedia di Rotrou.

Che Garnier sia servito come mediazione tra Sofocle e Rotrou è fuori di dubbio. Ad esempio, nel dialogo tra Emone e Creonte, quest’ultimo ordina che Antigone sia portata immediatamente al loro cospetto e sia sgozzata davanti a loro. Il motivo non è presente in Sofocle (v. 760-61), che ordina, più sobriamente, che Antigone sia portata al loro cospetto e muoia presso il suo futuro sposo. 

In Rotrou leggiamo:                                    

Oui, traître, je le veux, et bientôt le salaire
De ta présomption, va t’apprendre à te taire,
Et ne chérir pas tant ce qui m’est odieux: Soldats, amenez-la, qu’on l’égorge à ses yeux. (vv. 1437-40).
Sì, traditore, lo voglio, e presto il compenso della tua presunzione t’insegnerà a tacere e a non ossequiare tanto ciò che mi è odioso. Soldati, portatela qui, che la si sgozzi davanti ai suoi occhi.

In Garnier:                                   

J’atteste Jupiter, qui de foudres estonne
Les rochers Capharez, que la punition
Tallonnera de pres cette presomption.
Sus, qu’on amene tost cette beste enragee,
Qu’aux yeux de ce galand elle soit esgorgee (vv. 2057-60)
Io chiamo a testimone Giove, che coi fulmini colpisce le rupi Cafaree, che la punizione incalzerà da presso questa presunzione. Orsù, che si conduca qui subito questa bestia rabbiosa, che sia sgozzata davanti agli occhi di questo damerino.

Rotrou ha eliminato, come spesso avviene, gli aspetti eruditi e le precisazioni mitologiche e geografiche (a cui Garnier fa volentieri ricorso, spesso appesantendo il dettato poetico) e ha introdotto il tema del tradimento (in Sofocle e Garnier le accuse di Creonte battono invece in modo esasperato il tasto della disonorevole subordinazione di Emone a una donna), ma per il resto il suo testo segue da vicino quello di Garnier. Il cambiamento di decisione circa la modalità della morte di Antigone è pressoché immediato in Garnier (come in Sofocle), mentre in Rotrou è demandato a una successiva decisione collegiale, e annunziato solamente nell’atto successivo durante il colloquio tra Emone ed Efito.

Le differenze più sostanziali si hanno nel finale della tragedia. La parte finale di Garnier ha notevoli diversità rispetto a Rotrou, ed entrambi sono diversi da Sofocle. Al di là delle differenze di contenuto, è notevole innanzitutto che la fase finale della vicenda in Garnier (come in Sofocle) sia semplicemente raccontata, mentre in Rotrou è drammatizzata. In Garnier è soppressa la scena tra Tiresia e Creonte, che in Sofocle costituisce il punto nodale della vicenda, il momento in cui Creonte è costretto a rivedere la sua posizione e a deporre il suo atteggiamento di intransigente arroganza. Per contro, in Garnier ha ricevuto uno spazio assai rilevante la figura della moglie di Creonte, Euridice, di cui manca completamente menzione in Rotrou. Garnier ha sostanzialmente fuso l’episodio sofocleo di Tiresia e quello di Euridice. All’inizio del quinto atto un messaggero entra a recare notizie dolorose, con alcune considerazioni su Creonte, “felice questo mattino, infelice a quest’ora” (vv. 2423-24): di fronte alle insistenti domande del Coro il messaggero annunzia che “Emone, il povero Emone si è ucciso con le sue mani” (v. 2451) e che la morte di Emone ha fatto séguito alla morte di Antigone. In questo momento entra Euridice, che si dice atterrita sia dalle voci che ha udito dalla strada e che parlano di disgrazie per la casa reale sia dai vari preannunzi funesti che ha rilevato nel corso della giornata (un passaggio che in Sofocle e Rotrou appartiene a Tiresia). Il messaggero in modo circospetto narra alla regina le ultime vicende della giornata, affermando che “il furore di Creonte era stato attenuato dal consiglio dei suoi, che avevano espresso il parere che si seguissero gli oracoli dei grandi dèi annunziati da Tiresia, e che si facesse immediatamente un ufficio funebre al corpo di Polinice” (vv. 2504-08). Compiuto il rito, Creonte con alcune guardie si reca, attraverso il campo di battaglia ancora ingombro di cadaveri, alla caverna dove è rinchiusa Antigone: odono delle flebili voci e vedono l’apertura forzata e poi, entrando, scorgono il cadavere di Antigone ed Emone che l’abbraccia piangendo. Creonte singhiozzando si slancia sul figlio: “Che fate, figlio mio? Perché andate verso la perdizione? Tornate in voi, amico mio, calmate il vostro lamento. Perdonate il mio errore, ve ne prego umilmente, perdonatemi, amore mio, perdonatemi, vita mia: vogliate perdonare il mio errore, ve ne prego, io ne porterò la pena che voi mi ordinerete” (vv,. 2570-75). Qui il Creonte di Garnier è fondamentalmente diverso dal Creonte di Rotrou, che pervicacemente insiste nella sua idea del carattere morboso dell’attaccamento di Emone per Antigone (vv. 1748-51): “Figlio mio, quale disperazione sconvolge il vostro i pensiero? E da quale vano rincrescimento è oppressa la vostra anima? A quale punto vi porta un amore funesto: sfuggite, grazie a colui a cui dovete la vita”. In Garnier (e in Sofocle), conclusasi col racconto del suicidio di Emone la descrizione del messaggero, entra in scena Creonte che reca in braccio il cadavere del figlio. Poco dopo entra in scena un nuovo personaggio, Dorotea, invenzione di Garnier, che annuncia, con dovizia di particolari, come la regina non abbia retto a questa sequenza di disgrazie e si sia tolta la vita.

Rotrou reintegra l’episodio di Tiresia. È difficile ipotizzare una lettura diretta dell’originale greco da parte del tragediografo francese. È più probabile che la sua fonte per la conoscenza del modello greco fosse costituita da una delle varie traduzioni latine apparse in Europa sullo scorcio del secolo o, ancora più probabilmente, dalla traduzione italiana di Luigi Alamanni, apparsa nel 1533 a Lione (nel secondo tomo delle Opere toscane dell’autore), molto elogiata dai contemporanei e molto nota in Francia, grazie anche alla circostanza che, esule da Firenze, l’Alamanni trascorse gli ultimi anni a Parigi alla corte di Francesco I. Quella dell’Alamanni è una traduzione secondo la prassi del tempo, cioè una resa in volgare italiano (con uso di un linguaggio grave e solenne: il modello di riferimento è, come spesso nell’epoca, il Petrarca) che non si fa scrupolo di operare interventi e cambiamenti sul testo, introducendo anche qua e là elementi estranei all’orizzonte culturale del poeta greco (ad esempio insistendo sul tema della fortuna, che manca completamente in Sofocle). Sempre secondo la consuetudine e il gusto del tempo, l’Alamanni ama ampliare il testo originale, aggiungendo particolari e moltiplicando gli epiteti, così da dilatare l’originale con ripetizioni e ridondanze. Il rapporto Alamanni-Rotrou è trasparente soprattutto all’inizio del dialogo tra Tiresia e Creonte, come appare facilmente da questa breve citazione.

 Sofocle, vv. 991-997

ΚΡ.        Τί δ’ ἔστιν, ὦ γεραιὲ Τειρεσία, νέον;
ΤΕ.        ᾿Εγὼ διδάξω, καὶ σὺ τῷ μάντει πιθοῦ.
ΚΡ.        Οὔκουν πάρος γε σῆς ἀπεστάτουν φρενός.
ΤΕ.        Τοιγὰρ δι’ ὀρθῆς τήνδ’ ἐναυκλήρεις πόλιν. 
ΚΡ.        ῎Εχω πεπονθὼς μαρτυρεῖν ὀνήσιμα.
ΤΕ.        Φρόνει βεβὼς αὖ νῦν ἐπὶ ξυροῦ τύχης.
ΚΡ.        Τί δ’ ἔστιν; ὡς ἐγὼ τὸ σὸν φρίσσω στόμα.

Cr. – Che c’è di nuovo, vecchio Tiresia? Tir. – Io te lo spiegherò, e tu lasciati convincere dall’indovino. Cr. – Mai mi sono allontanato dal tuo pensiero prima d’ora. Titr. – E per questo reggi questa città per una retta via. Cr. – Posso attestare il tuo giovamento perché l’ho provato. Tir. – Pensaci, perché adesso veramente hai camminato su una sorte tagliente. Cr. – Per quale motivo io tremo per il tuo parlare?    

          

Alamanni, vv. 1269-75       

Cr.       Che nuove apporti, o mio Tiresia antico?
Tir.      Io tel dirò, ma fa’ quant’io ti mostro.

Cr.       Io non fui mai dal tuo voler lontano. Tir.      E per ciò sei venuto in questo impero. Cr.       Sempre m’affaticai nel ben di quello. Tir.       Fa’ pur d’esser or saggio al gran bisogno. Cr.       Ohimè che ‘l tuo parlar mi dà spavento!

Rotrou, vv. 1575-85                        

Cr.      Que nous apprendrez-vous, bon vieillard, qui sans yeux
           Lisez si clairement dans les secrets des Dieux?
Tyr.     Un avis qui regarde, et vous, et votre Empire,
           mais pesez mûrement ce que je viens vous dire.
 Cr.      J’ai toujours obéi, vous toujours ordonné:
Tyr.     C’est l’unique secret qui vous a couronné.
Cr.      Aussi consultai-je en tout ce qui me touche,
    Assuré que les Dieux parlent par votre bouche.
Tyr.     Surtout, pour votre bien, croyez-moi désormais,
            Car le besoin en presse, ou n’en pressa jamais.
Cr.       O Dieux!quelle frayeur m’excite ce langage?
Cr. – Che cosa ci riferirete, buon vecchio, che senza occhi leggete così chiaramente nei segreti degli dèi? Tir. – Una notizia che riguarda voi e il vostro impero: ma soppesate attentamente quello che vengo a dirvi. Cr. – Io ho sempre obbedito, voi sempre ordinato. Tir. – E’ il solo segreto che vi ha incoronato. Cr. – E inoltre io vi ho consultato in tutto ciò che mi riguarda, sicuro che gli dèi parlano attraverso la vostra bocca. Tir. – Soprattutto per il vostro bene, credetemi adesso, perché il bisogno ci stringe, come non ci ha mai stretto. Cr. – O dèi, quale spavento mi ispira questo parlare.

Benché il ritmo del dialogo sia più lento, in Rotrou si perde un po’ della magniloquenza di Alamanni, e il tono risulta complessivamente più vicino a quello di Sofocle nella rielaborazione francese che non nella traduzione italiana. Ma è nella descrizione dei presagi funesti (vv. 1586-1616) che si coglie la diversità tra Sofocle e Rotrou. In luogo del generico “ignoto grido di uccelli” di Sofocle (v. 1001), che nell’Alamanni diventa “voce orrenda d’uccei maligni e crudi”, troviamo in Rotrou la precisazione dell’“orribile grido di uno stormo di aquile marine” (v. 1589) su cui il poeta si sofferma per quattro versi, ed a questo fa seguito un combattimento “di becchi, d’unghie e d’ali” (v. 1594) di numerosi corvi; i segni funesti che accompagnano il sacrificio sono descritti con maggiore enfasi fino alla scoperta che la vittima sacrificale è priva di fegato (v. 1606), particolare questo che è assente in Sofocle e che provoca il grido del ragazzo che fa da scorta a Tiresia. Dopo la climax accuratamente preparata per tutto il lungo tratto della descrizione, la conclusione del discorso assume un tono ampolloso (“Infine tutto non è che orrore e confusione. E tutto questo, Creonte, tutto per causa vostra: per voi, che rovesciate le leggi della Natura, che, barbaro, negate la sepoltura ai defunti” vv. 1607-10), con una tensione espositiva che manca in Sofocle e di cui si può trovare appena qualche preannunzio nella versione di Alamanni.

4. Ulteriori osservazioni sul dramma di Rotrou

La volontà di mantenere alta la tensione espositiva in qualche caso va a scapito della chiarezza e della linearità.

Un esempio precipuo si ha nel primo atto, nel racconto della morte di Meneceo (vv. 31-74). Nelle Fenicie di Euripide, ove l’episodio compare per la prima volta, la descrizione vera e propria è molto sobria e contenuta in pochi versi (1090-92), ma essa è preceduta da due intensi dialoghi, l’uno fra Tiresia e Creonte e l’altro tra Creonte e Meneceo stesso: nel primo Tiresia espone la necessità del sacrificio, nel secondo Creonte cerca disperatamente di sottrarre il figlio al destino mortale, e infine è Meneceo stesso che in un intenso monologo rivela la sua volontà di accettare il decreto divino, dopo aver mentito al padre illudendolo che avrebbe cercato scampo nascondendosi o allontanandosi da Tebe. Rotrou dipende qui da Stazio, nella cui Tebaide si dà discreto spazio alla descrizione del gesto (X, 759-780), ma trascura del tutto gli antefatti della vicenda, benché la morte di Meneceo abbia un’importanza cruciale nella prosecuzione del dramma, perché acuisce l’odio di Creonte nei confronti della stirpe di Edipo e quindi ne giustifica, nella seconda parte, l’ostinazione, e si ponga (e questa è un’innovazione di Rotrou) come elemento di confusione e di ironia tragica, in quanto l’oracolo, quando parlava dell’ultimo discendente dei seminati, si riferiva a Creonte, non a Meneceo (vv. 1772). Antigone stessa narra l’episodio come se si trattasse di un fatto marginale, occasionale (futile?) argomento di conversazione in un momento di pausa mentre si sta aspettando l’arrivo del re:

 Mais attendant l’entrée, et l’entretien du Roy,
 Oyez un accident qui me transit d’effroi (vv. 33-34).

Ma aspettando l’ingresso e il trattenersi del re, udite un incidente che mi trapassa di spavento.

Antigone narra che mentre si stava svolgendo la battaglia è sopraggiunto Meneceo, che prima si è congedato da lei e poi gridando a gran voce ha chiesto in nome degli dèi una sosta della battaglia e ha rivolto alla città di Tebe auguri di una pace che sarà frutto del suo gesto:

Goûte la paix que je vais t’acheter,
Mon sang en est le prix (vv. 57-58);

Godi la pace che sto per procurarti: il mio sangue ne è il prezzo.

Infine si è lanciato dalla torre. La conclusione giunge dopo ben trentaquattro versi, con cui il poeta ha cercato di accrescere la tensione e di costruire un clima di attesa:

    Se lance de la tour, le fer encor en main,
    Noble victime aux Dieux, pour le peuple Thébain (vv. 69-70)

Si lancia dalla torre con la spada ancora in mano, nobile vittima degli dèi per il popolo tebano

In realtà lo spettatore saprà solamente dopo le ragioni precise del gesto di Meneceo, quando Eteocle ne riferirà in modo chiaro (vv. 88 e ss.); che Meneceo sia figlio di Creonte allo spettatore non viene detto: se, come è probabile, non lo sapeva da sé già prima dell’inizio della tragedia, lo dovrà scoprire da sé a poco a poco attraverso gli accenni via via disseminati nella tragedia. Del resto anche il primo intervento di Creonte sulla scena (vv. 103 ss.) non solo non dice esplicitamente che il giovane gettatosi dalle mura è suo figlio, ma addirittura, al di là delle proteste dinastiche (il trono di Tebe è occupato da una stirpe che si è macchiata di orrendi crimini) e della dichiarazione di ateismo, non contiene nessuna parola di rimpianto di fronte alla recente scomparsa del figlio più giovane. Del resto anche nella scena successiva il dialogo tra Antigone ed Emone tocca molti punti e molte considerazioni, ma nulla che riguardi Meneceo, la cui morte sembra censurata nelle parole del fratello Emone.

 L’aver descritto prima il suicidio e poi le ragioni del suicidio costituisce uno di quei casi di déplacement (spostamento) che la tragedia francese ama, ma nella fattispecie questo artificio, seppure efficace per accrescere la tensione drammatica, rende complicato il dipanarsi della vicenda. Soprattutto si deve notare come Rotrou introduca un motivo (il tema dell’eroe sacrificale) importante sia di per sé sia nello svolgimento successivo del dramma, senza poi dare spazio adeguato allo sviluppo e all’approfondimento del motivo. Tra l’altro Rotrou stesso ne accresce l’importanza rispetto alle fonti, richiamandolo anche nella seconda parte, e quindi conferendogli anche un valore di raccordo tra i due blocchi di materiale che costituiscono la tragedia. Qui e altrove sembra quasi che la materia drammatica sia parzialmente sfuggita di mano all’autore, che ha tratteggiato e introdotto un elemento di grande importanza, ma non è riuscito a dominarlo.

Ancora più clamoroso in questo senso è l’episodio del suicidio di Giocasta. Il pubblico ne viene informato solo a posteriori e in modo assolutamente incidentale. Giocasta, dopo avere tentato di fermare il duello fratricida, ha rinunciato alle sue suppliche ed è uscita di scena alla fine del secondo atto maledicendo i figli:

Adieu, non plus mes fils, mais odieuses pestes,
 Et détestables fruits de meurtres e d’incestes:
 Vous ne mourrez pas seuls, et je suivrai vos pas,
 Pour vous persécuter, même après le trépas (vv. 641-645)

Addio, non più figli miei, ma pesti odiose, e detestabili frutti di uccisioni e di incesti: voi non morirete soli, e io seguirò i vostri passi, per perseguitarvi anche dopo la morte.

E la didascalia dell’uscita di scena sottolinea: Elle s’en va furieuse (“Se ne va furiosa”). Dopo il breve dialogo Eteocle-Creonte che conclude il secondo atto, il nuovo atto si apre col già ricordato brano lirico di Antigone (un quasi-stasimo): per il suo carattere generale (l’incostanza della fortuna e il suo abbattersi più facilmente sui palazzi dei re che sulle dimore della povera gente) il brano non allude necessariamente a una nuova sventura aggiuntasi alle precedenti. L’inizio della scena successiva è occupata dal dialogo Emone-Antigone, con la lunga e dettagliata descrizione del duello tra i due fratelli. Emone sembra inizialmente all’oscuro di tutto. Infatti entrando in scena ritiene che l’atmosfera di dolore che aleggia nel palazzo sia dovuta al fatto che già sono trapelate le notizie riguardanti la sorte dei fratelli:                                   

Madame, je croyais que la commune plainte
Vous eût déjà livré cette sensible atteinte,
Et fût la cause du deuil que je rencontre ici. (vv. 687-89)
Signora, io credevo che il lamento comune vi avesse già portato a conoscenza di questo colpo tangibile e fosse la causa del cordoglio che io trovo qui.

Solamente ottanta versi dopo la notizia della morte di Giocasta viene menzionata da Antigone, e non già riferita esplicitamente, bensì evocata in modo incidentale da un’esclamazione che Antigone sembra rivolgere a sé stessa:  

 Que votre mort, ma mère, est un bien que j’envie,
 Et qu’il me serait doux de vous avoir suivie: (vv. 771-72)
Come la vostra morte, madre mia, è un bene che io vi invidio, e come sarebbe dolce per me avervi seguita!

Passano più di cento versi dall’inizio dell’atto perché vi sia la reazione di Emone di fronte alla notizia (vv. 787-89) e qualche parola di Antigone sulla modalità con cui si sono svolti i fatti. Nel mezzo vi è stato anche il dialogo tra Antigone e Ismene, in cui quest’ultima ha messo al corrente la sorella circa l’editto di Creonte.

Se Rotrou ha deliberatamente scelto di acuire la tensione drammatica con questi espedienti, è da dire che il risultato non è comunque pari all’intenzione. Di nuovo, come nel caso di Meneceo, un evento importante è stato relegato sullo sfondo, un motivo è stato introdotto, poi lasciato cadere, poi di nuovo esplicitato, e soprattutto, con questa modalità di riferire a posteriori e in modo incidentale e fortuito fatti svoltisi al di fuori della scena, viene anche calpestato il legittimo desiderio del pubblico di partecipare allo svolgersi della vicenda e di essere messo puntualmente a conoscenza di eventi che, per il fatto di essersi svolti fuori scena, non ha potuto conoscere.

Altra notizia che apprendiamo solo in modo occasionale è quella della ritirata della coalizione argiva dopo la morte di Polinice. E’ Argia, giunta sul campo di battaglia per rendere gli estremi onori a Polinice, a darci questa informazione:

C’est pour ce triste soin, dont mon devoir me presse,
Que je me suis soustraite aux troupes de la Grèce,
Qui, le siège levé par un honteux départ,
Souffre cette injustice, et il n’y prend point de part. (vv. 925-28).
E’ per questa triste incombenza, a cui il dovere mi spinge, che io mi sono sottratta alle truppe de la Grecia, che, abbandonato l’assedio con una partenza disonorevole, subisce questa ingiustizia, e non vi prende parte.

La figura di Argia è introdotta da Stazio (Theb. XII 243 ss.), fonte di Rotrou in questo frangente. Le due donne sono catturate dalle guardie di Creonte mentre compiono l’ufficio funebre di Polinice. Questo impone a Rotrou di introdurre la donna al cospetto di Creonte insieme ad Antigone (vv. 1143 ss.). La circostanza sarebbe di per sé interessante da un punto di vista meramente scenico, perché consentirebbe al poeta di rendere più solido il legame della seconda parte con la prima, ma di fatto questo costringe anche a suddividere tra due personaggi quelle che in Sofocle erano le affermazioni della sola Antigone: in conclusione, facendo partecipare Argia alla disputa con Creonte, viene offuscato il carattere di orgogliosa e solitaria autocoscienza che Antigone ha in Sofocle e quindi, in sostanza, la figura profetica di Antigone, che nel dramma di Sofocle attraverso il suo sacrificio porta a un più profondo grado di autocoscienza i personaggi che le stanno intorno (Emone, Ismene, il Coro), in Rotrou non esiste più. Ma il cambiamento rispetto a Sofocle non si ferma qui, perché Rotrou, comunque obbligato a portare anche Argia di fronte a Creonte, ha voluto andare oltre e dare voce anche a Menete, suddividendo così su tre personaggi, e non su due, l’opposizione a Creonte, col risultato di rendere più ripetitivo, e quindi in sostanza magari più forte e più carico dal punto di vista della tensione scenica, ma meno efficace nella sua sovrabbondanza dal punto di vista ideale ed etico, il contraddittorio alle accuse di Creonte:                       

 Cr.       Vous faites donc vertu de transgresser mes lois
 Ant.     Oui, pour servir les Dieux, qui sont plus que des Rois.
 Arg.     Pour faire honneur au Ciel au mépris de la terra.
 Men.    Et pour donner aux morts la paix après la guerre.
 Cr.       Et tous pour mériter un rigoureux trépas.
 Ant.      Qu’il vienne:
 Arg.      Il tarde trop:
 Men.    Je n’y recule pas. (vv. 1159-64)
Cr. – Dunque vi fate vanto di trasgredire le mie leggi. Ant. – Sì, per servire gli dèi, che sono più dei Re. Arg. – Per fare onore al Cielo in spregio della terra. Men. – E per dare ai morti dopo la guerra la pace. Cr. – E tutti quanti per meritare un debito trapasso. Ant. – Che venga. Arg. – Tarda anche troppo. Men. – Io non indietreggio.

Alla fine dell’atto Creonte ordina che entrambe le donne siano rinchiuse in una torre del palazzo, ma che Argia debba essere trattata con più rispetto, in attesa che il Consiglio della corona deliberi sulla sua sorte. Il destino d’Antigone viene cambiato due volte: prima, nell’impeto dell’ira, Creonte ordina che la si sgozzi davanti agli occhi del figlio; poi, con un cambiamento di decisione successivo, di cui Efito riferisce a Emone (vv. 1499 ss.), Creonte decide di fare rinchiudere viva Antigone in una cavità sotto il Citerone. Di Argia (che pure Creonte aveva accomunata ad Antigone come “oggetto del suo odio”, v. 1309) non si sa più nulla, tanto meno di Menete, che neppure viene degnato di considerazione da parte di Creonte. Si rileva così il carattere puramente accessorio di questo personaggio, destinato a scomparire nel nulla durante il successivo svolgersi della vicenda.

Un altro personaggio che scompare è Adrasto. Questi interviene nella seconda parte del primo atto e la sua presenza ha un peso rilevante anche nel delineare il carattere di Polinice, mostrando come questi sia stato accolto con affetto nella nuova patria e quanta disponibilità ci sia da parte della sua nuova famiglia ad aiutarlo, così da rilevare in modo ancora più radicale la sua assoluta intransigenza. Ovviamente, a fronte di personaggi che vengono meno tra una parte e l’altra della tragedia, vi sono personaggi che compaiono nella seconda fase: tali sono ad esempio i due consiglieri del re, uno dei quali, Efito, viene ad avere anche una parte di discreto rilievo.

Può essere interessante invece analizzare il modo in cui Rotrou ha cercato di saldare i due blocchi di materiale che costituiscono la tragedia, prolungando oltre l’inizio della seconda parte la fine della prima, o creando un anticipo della seconda parte quando la prima ancora non è conclusa. Lo schema è il seguente:

Atto III, fine della scena II: concluso il racconto del duello e resi edotti gli spettatori della morte di Giocasta, Antigone fa uscire Emone per un momento di riflessione (vv. 773-775).

Atto III scena III: entra Ismene che riferisce i fatti sopraggiunti dopo il duello e dà notizia del bando di Creonte (vv. 775-786) [preannunzio della seconda parte]

 Atto III scena IV: rientra in scena Emone, dialogo tra questi e Antigone: Ismene è presente sulla scena, ma non interviene; lamento di Emone sulle disgrazie che si sono avute nel corso della giornata e descrizione della morte di Giocasta; esce Emone (vv. 787-806) [conclusione della prima parte];

Atto IV scena V: Antigone annunzia ad Ismene la sua decisione (vv. 807 ss.): piena corrispondenza, quasi letterale, tra l’inizio di questa scena e l’inizio dell’Antigone di Sofocle [inizio effettivo della seconda parte].

Come si vede, il sovrapporsi delle sue sezioni rende quasi l’effetto di una dissolvenza incrociata: una serie di eventi dolorosi si conclude (di molti dei fatti avvenuti non si parlerà più nella seconda parte della tragedia) e una nuova serie di dolori e di tensioni si preannuncia.

 5. Conclusioni

La costruzione in due blocchi e la dipendenza da fonti letterarie molto differenti per ragioni stilistiche, culturali, contenutistiche non ha permesso di dare un carattere del tutto omogeneo alla tragedia di Rotrou. In più di un caso si possono rilevare, se non contraddizioni, quanto meno forzature e incoerenze. Si aggiunga che anche la volontà dell’autore di mantenere alta la tensione espositiva in qualche caso va a scapito della chiarezza e della linearità. L’Antigone di Rotrou può essere considerata come la giustapposizione di due sezioni la cui saldatura non è stata realizzata compiutamente, nonostante i suoi tentativi di creare motivi di raccordo tra le due parti. Tra avvenimenti rappresentati sulla scena, avvenimenti raccontati, avvenimenti semplicemente evocati, il sovraccarico sembra alla fine eccessivo.

Nella tragedia si trovano passaggi di buona fattura artistica, accanto a qualche caduta e a qualche leziosaggine, in parte determinata anche dal gusto dell’epoca. Ad esempio, nel primo dialogo tra Emone e Antigone (atto I, sc. IV) così Emone interrompe con un’immagine barocca e galante un’accorata riflessione sull’insolenza di Creonte che fa presagire nuove disgrazie:
             

                                   mon père,
      Qui, forçant tout respect, ose bien à vos yeux,
      Ces astres qui pourraient s’imposer aux Dieux,
      Passer insolemment jusqu’à cette licence (vv. 140-43)
… mio padre, che, oltrepassando qualsiasi riguardo, osa dinanzi ai vostri occhi, queste stelle che potrebbero predominare sugli dèi, giungere con insolenza fino a questa licenza.

Rotrou ha ripreso i temi fondamentali dell’Antigone sofoclea adattandoli alla problematica del suo tempo. La parola chiave della tragedia è la parola “natura”: il combattimento tra i fratelli, l’odio che divide i vari personaggi apparentati tra loro, il bando di Creonte sono tutti affronti e oltraggi di fronte alle esigenze della Natura. La Natura è la vera sconfitta di tutta questa vicenda drammatica, come dice sinteticamente Emone poco prima di darsi la morte (vv. 1741 ss.), e come aveva già detto Antigone alla notizia della morte dei fratelli (vv. 696 ss.). Rispettosi delle esigenze della natura (e dunque delle leggi divine) sono Giocasta, Antigone, Emone, Argia, alla fine anche Ismene, perché si oppongono ad avvenimenti che fanno dimenticare le esigenze della natura e portano ad esaltare i propri egoismi personali, i propri atavici sentimenti di odio, in una parola il fondo spregevole e meschino della propria personalità. A differenza di quanto avviene in Sofocle, Antigone non è il solo personaggio positivo del dramma: altri condividono le sue stesse esigenze e la sua sensibilità, e altri sono capaci quanto lei di prendere decisioni e di andare fino in fondo alle decisioni prese: ciò non toglie che Antigone abbia comunque nel dramma una posizione centrale che non è intaccata se non in piccola parte dalla presenza di altri personaggi positivi. Basta fare un confronto tra Antigone e Argia: Argia è un doppione di Antigone dal punto di vista ideale, non introduce nessun elemento di novità per quanto riguarda la coscienza etica che la muove, è capace quanto Antigone di agire e di rimanere ferma nella decisione: ma Argia è soltanto una breve apparizione, compare sulla scena per poi disintegrarsi nel nulla: dopo la decisione di metterla in carcere, di lei non sapremo più nulla, e in fondo questo venir meno del personaggio non procura nessun rimpianto nello spettatore, che non è ansioso di sapere le sue notizie. In sostanza, nonostante la presenza di un contorno che potrebbe anche riuscire soffocante, l’unicità di Antigone può risultare intaccata o sminuita, ma non cancellata. Tuttavia questa unicità non è dovuta a una scelta di Rotrou, ma alla presenza di alcuni tratti indelebili tracciati da Sofocle che le riprese e gli adattamenti successivi non possono cancellare. Antigone è un personaggio che può essere riletto, rielaborato, modificato, adattato alle esigenze dell’epoca: non a caso un critico e studioso di letteratura francese come il De Nardis ha ravvisato nel teatro francese del XVI-XVII secolo differenti riletture del personaggio (l’Antigone cristiana di Garnier, l’Antigone cristiano-laica di Rotrou, l’Antigone giansenista di Racine, l’Antigone laica di Boyer); al di là di tutto però resta l’Antigone di Sofocle, che rifrange come un prisma i colori delle diverse riletture e interpretazioni a cui viene sottoposta nelle varie epoche.

La Natura è il Leitmotiv dell’Antigone di Rotrou, ma su questo s’innestano anche altre tematiche: l’amore di Antigone per Emone, un amore ricambiato, che potrebbe avviarsi verso una conclusione felice, se il progredire degli eventi non disponesse diversamente; il motivo dinastico che oppone Creonte alla stirpe di Edipo; l’inganno degli oracoli, che convincono Meneceo a un inutile sacrificio; il tema politico, nelle frequenti riflessioni sui doveri dei re e sul metodo di reggere il governo; e poi il tema della fortuna, e tanti altri motivi che fanno di questa tragedia un grande affresco in cui prevalgono le tinte forti e buie, ma in cui manca, in sostanza, un disegno unitario e un approfondimento delle molte, forse troppe, tematiche suscitate.

Nota bibliografica

Questa pagina rappresenta un approfondimento dell’articolo L’Antigone di Sofocle e le sue letture moderne (apparso nella rivista “Nuovo Areopago” del 1982 e ripubblicato in Zetesis 1/1991: ora disponibile anche sul sito di Zetesis all’indirizzo https://www.rivistazetesis.com): rinviamo pertanto a questo scritto per tutto ciò che concerne i caratteri generali del personaggio di Sofocle e la sopravvivenza (sua e della tragedia sofoclea) nel teatro successivo.

L’edizione standard dell’Antigone di Rotrou è quella curata da Bénédicte Louvat e pubblicata in J. de Rotrou, Théâtre completTome 2, Paris, Société de Textes Français modernes, 1999 (dalla quale sono citati i passaggi riferiti nel nostro articolo). Testo online della tragedia a questo link: clicca qui. L’Antigone di Garnier si può leggere (nell’edizione del 1580) a questo link: clicca qui.